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Martedì, 22 Luglio 2025 00:18

Miguel Benasayag «Questi nostri figli così sofferenti nell'epoca delle passioni sempre più tristi»

Miguel Benasayag Miguel Benasayag

Miguel Benasayag. Lo psicoanalista argentino naturalizzato francese,esperto di infanzia ed adolescenza, parla del male di vivere dei giovani tra ansie, tecnologie e paura del futuro

Vietare il cellulare in classe? Una misura «pigra», che non affronta la complessità del presente dei nostri ragazzi. Bambini davanti allo schermo dello smartphone? Mai prima dei tre anni. E mamme che allattano mentre scorrono distrattamente i social network? Un danno, una ferita di cui vedremo purtroppo le conseguenze tra qualche anno. Miguel Benasayag - tra i maggiori intellettuali della contemporaneità - plana con il suo spirito sovversivo e la sua indomita criniera bianca a Villa Morando per ricevere il Premio Internazionale Filosofi lungo l'Oglio in una serata magicamente perfetta, senza zanzare, senza afa, dove quattrocento persone - giovani, famigliole, anziani, sindaci con la fascia tricolore — non sudano, non si distraggono, non guardano i cellulari ma lo ascoltano rapite nel suo buffo e magnetico italiano, impastato con lo spagnolo e il francese. Fuori dalla campana di vetro, come in un Truman Show, siamo a Lograto, comune dell'Alta Pianura Padana in provincia di Brescia, disseminato di coltivazioni di frumento e di mais, capannoni industriali e sale giochi che si chiamano Las Vegas, Montecarlo e Piccadilly.

Nel parco della Villa, Francesca Nodari, filosofa, fondatrice, motore e anima del Festival dei Filosofi lungo l'Oglio presenta Benasayag, quattordicesimo vincitore del premio per un libro del 2019, Funzionare ed esistere, e le nostre vite ordinarie sbiadiscono, si scolorano. Guerrigliero argentino durante la dittatura di Videla, moglie desaparecida, arrestato e torturato in carcere, grazie alla doppia cittadinanza si rifugia in Francia dove - richiamandosi alla corrente dell'antipsichiatria e della psicoanalisi esistenzialista - alterna l'attività di clinico, soprattutto nel campo dell'infanzia e dell'adolescenza, alla ricerca in biologia, con Francisco Varela,in antropologia e sociologia.

Ma Benasayag non è solo questo. È anche ballerino di tango, musicista, cantante di bolero, amante appassionato dell'attività fisica (fa spinning e addominali tutte le mattine da quarant'anni, è andato in palestra persino nell'hotel di Brescia dove ha dormito). Non c'è altro modo per dirlo se non usando le sue parole: «Io di vivere sono contentissimo.Talvolta ripenso a mia moglie e al mio amico desaparecido che era come un fratello per me e mi chiedo: anche a loro vivere sarebbe piaciuto tantissimo come a me?».

Per quanto la tristezza non sia proprio nelle sue corde emotive - dice di non esserlo stato nemmeno durante i quattro anniin carcere - quello che almeno in Italia è il suo libro più noto evoca un'espressione di Spinoza: le «passioni tristi», che non sono quelle della «tristezza del pianto ma dell'impotenza e della disgregazione». L'epoca delle passioni tristi - scritto nel 2003 insieme a Gérard Schmit - scaturiva da un'ondata di richieste d'aiuto rivolta dalle famiglie, dalle istituzioni e dall'insieme della società agli specialisti della crisi, ai «tecnici della sofferenza».

Vent'anni dopo,le passioni sono sempre più tristi e la sofferenza psichica, dice Benasayag, «dopo il mal di schiena si colloca in buona posizione tra le maggiori sofferenze contemporanee». Milioni di persone - anche molto giovani - assumono farmaci psicotropi, antidepressivi, sonniferi e ansiolitici per alleviare un profondo e dilagante male di vivere. «Negli ultimi secoli la cultura dell'Occidente si è costruita sull'idea del futuro come promessa. Il presente era una specie di sala d'attesa di una felicità futura. Oggi questo futuro è diventato una minaccia esasperata da informazioni apocalittiche. Il cambiamento climatico, le guerre, la precarizz azione del lavoro hanno trasformato i giovani dall'avere una vita ad avere un curriculum vitae. Dall'umano siamo passati alle risorse umane. Facciamo terrorismo sui giovani e io sono preoccupato per loro e per il senso minaccioso sul futuro che stiamo lasciando».

Chi si adatta alla cultura della performance è etichettato come brillante e intelligente, mentre è malato da curare chi è fuori da questo paradigma. Il paradosso è che anche alcune plateali manifestazioni di ribellione - come evitare di sostenere l'orale della maturità - non lo sono affatto e finiscono con l'essere coerenti rispetto all'obiettivo di essere «funzionanti» e cioè promossi. Riprendendo il libro, la filosofa Francesca Rigotti durante la Laudatio a Benasayag dice: «Il funzionamento è, al massimo, un modo di comprendere e rappresentare dall'esterno i processi della macchina e del vivente, del biologico e dell'inerte, mentre l'esistenza rimanda alla comprensione dell'interiorità dei processi».

La sofferenza esistenziale - cioè il modo in cui l'umano sperimenta di essere limitato come individuo, come gruppo, come specie vivente - è oggi «colonizzata» dalla sofferenza patologica. «I limiti sono essenziali alla vita - prosegue -. Morte, malattia, impotenza, sofferenza, lungi dal rappresentare un insieme di debolezze, sono parte integrante di quella dinamica di fragilità senza la quale non ci potrebbe essere vita, salute e gioia». E proprio quell'attitudine alla «intranquillità» (titolo di un libro del 2023 con un suo giovane allievo, Teodoro Cohen) la chiave per superare la tirannia dell'algoritmo e l'imperativo della prestazione facendoci assumere la strutturale fragilità dell'essere umano come spinta a «sostenere il desiderio che ci attraversa che è desiderio di vita, di gioia, di solidarietà».

All'individuo, a quella che Benasayag chiama «la singolarità del vivente» restano le sofferenze, la depressione e l'angoscia che vengono medicalizzate e curate con i farmaci: «Oggi siamo spinti a soffrire non solo del male che ci affligge ma anche dell'inammissibilità di quel male inteso come un elemento della nostra vita». Nella moltiplicazione delle sofferenze vissute come patologiche cresce dunque la richiesta ai clinici ma con caratteristiche nuove. Se la domanda classica era capire il perché di questa sofferenza, la nuova è «modulare e strumentale, incentrata sulla constatazione di un malfunzionamento o semplicemente difettosità con l'obiettivo della riparazione».

Ma cosa fare dinanzi al giovane paziente che a causa di una fobia o di una depressione sente un senso di fallimento in quanto la società non lo etichetta come «performante»? Per Benasayag bisogna smettere di ossessionare i giovani «con un discorso securitario che getta il panico sul loro futuro. Re senza regno, a questi giovani viene impedito di sviluppare la conflittualità, le vie traverse, i temporeggiamenti e le assunzioni di rischio». Invece, essere giovane vuol dire «esplorare il possibile».

Ma in che misura le psicoterapie esistenti e in particolare le due correnti principali, la psicoanalisi e il comportamentismo, sono in grado di rispondere alle sfide delle nuove sofferenze? «È inutile dire - risponde Benasayag - che oggi il paziente non è troppo preparato a trascorrere dieci anni sul divano parlando in modo incoerente di tutto ciò che gli passa per la testa con dietro di lui un professionista molto preparato che si sforzerà di emettere qualche suono ripetendo le sue ultime parole. A causa del suo sfasamento rispetto all'epoca la psicoanalisi si trova suo malgrado a non essere che una tecnica del benessere tra le tante. E sicuramente il rapporto qualità/prezzo tra l'efficacia della psicoanalisi nei termini di aumento di benessere per il paziente di oggi risulta poco interessante. Ovviamente questo nella prospettiva del paziente. Ma è indubbio che la psicoanalisi abbia fallito i due appuntamenti più importanti, quello con le trasformazioni storico sociali e culturali della nostra epoca e quello con la biologia».

Il declino della psicoanalisi è stato accompagnato dalla crescita esponenziale di nuovi metodi psicoterapeutici come le terapie cognitivocomportamentali. Questo «riduzionismo fiscalista» è una tendenza forte della nostra epoca: «Quando il clinico seguace delle nuove terapie cerca ad esempio di liberare un paziente da un comportamento fobico, il comportamento fobico non corrisponde a una realtà in sé ma a un ritaglio della realtà, una tassonomia segnata dall'epoca e dalla cultura che gli consente di isolare, nell'insieme complesso e integrato che è il paziente, solo una serie di elementi del suo comportamento. Ma la realtà dolorosa della sofferenza è ben più complessa».

La chiave per Benasayag è invece quella della terapia situazionale fondata sull'ipotesi che l'ordine e l'azione emanino dalla situazione piuttosto che dall'individuo: «la sfida è accogliere e trattare la sofferenza psichica in un mondo in cui la dispersione della persona è diventato la norma». Una delle cause classiche di sofferenza psichica è di trovarsi intrappolati in un passato che non passa che obera qualsiasi possibilità di agire nel presente. E, invece, esistere vuol dire aprirsi al presente. Benasayag racconta un episodio degli anni del carcere, quando esplorate le possibilità di fuga, lui e i suoi compagni giunsero alla conclusione che fosse impossibile e che nessuno dall'esterno avrebbe potuto aiutarli. «Per la prima volta nella mia vita mi sono trovato senza dopo. Tutto quello che avevo era lì, nel presente. E ho cominciato a esistere». 

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