La Fondazione Filosofi lungo l’Oglio si adopera perché, in un’era di «conflittualità delle memorie», si attui la Memoria del Bene. Questo avviene anche in collaborazione con altre istituzioni e/o associazioni ed attraverso iniziative ad hoc.
Fondamentale per la Fondazione è sostenere il dialogo ebraico-cristiano, ispirandosi al magistrale esempio del cardinale Carlo Maria Martini, del Sign. Rabbino prof. Giuseppe Laras e di Gabriele Nissim, al quale la Fondazione riconosce il merito di avere ottenuto l’istituzionalizzazione della Giornata dei Giusti (che ricorre il 6 marzo di ogni anno) dal Parlamento Europeo il 10 maggio 2012, che anche la Fondazione Filosofi Lungo l’Oglio promuove. L’iniziativa è possibile, oltre che all’importante sostegno di variComuni, grazie alla stretta collaborazione con la Fondazione Gariwo - Gardens of the Righteous Worldwide.
Fare Memoria è la rassegna di approfondimento - che avviene solitamente nei mesi invernali e primaverili - dedicata alla Shoah. Un percorso capace di indagare da un punto di vista filosofico, storico, teologico, letterario che cosa è stato l’olocausto e per fare della memoria non una mera cerimonia pubblica, ma un momento di riflessione che non può non tener conto sia dell’attuale panorama geopolitico sia dello spettro di un antisemitismo di ritorno proclamato a più voci dai cosiddetti negazionisti. Antisemitismo che non può non chiamarci in causa, tanto più in mondo globalizzato, complesso e in fermento quale è quello in cui abitiamo.
Mai come in questo periodo storico si avverte il bisogno di fare memoria. Mnemosyne, nella mitologia greca depositaria della memoria collettiva, madre delle nove muse evocate dai poeti sin dall’Iliade e dall’Odissea per eternarne il messaggio, è divenuta oggi, se così si può dire, garante di quella memoria del passato, senza la quale non vi può essere presente né futuro, e grazie alla quale, viene affermata e garantita l’identità e la dignità di chi non è non è più tra noi. La Shoah – ritenuta una cesura della storia, e non soltanto della storia del popolo ebraico – rappresenta, al di là della sterile dialettica tra particolarismo e universalismo, un contro-evento – come ebbe modo di definirla Arthur A. Cohen – che proprio per il tremedum cui rinvia , proprio per l’abisso di male che evoca non può non chiamare in causa la coscienza collettiva, l’umanità che abita ogni essere umano, per provocarne quella domanda che non avrà mai una risposta ultima o definitiva: che cosa è stato? Ma che, tuttavia, ci invita, anzi ci obbliga moralmente a riflettere, a capire, ad ascoltare, a metterci in discussione.
direttrice del Festival Filosofi Lungo l’Oglio, Francesca Nodari
Lo sforzo del ciclo che qui presentiamo è proprio quello di mostrare punti di vista autorevoli su che cosa è stato, capaci di orientare la coscienza del singolo su un evento che non può e non potrà mai passare sotto silenzio. Questo, nella convinzione che il forse e il davar acher (altra interpretazione) costituiscano delle costanti nella storia ebraica.
Qui tutte le edizioni dalla più recente:
Chi salva una vita, salva il mondo intero», dice il Talmud. E lo salva pure «chi dà il proprio contributo contrapponendosi a ogni forma di totalitarismo, di genocidio e di violenza, anche a costo di perdere la propria, di vita.
Tema sulla specificità del vissuto e del dolore delle donne in quelle condizioni di privazione totale, in quella prigionia fatta di fame, di freddo, di percosse, di umiliazioni, di notte in pieno giorno, di viaggi della morte dove il capolinea si chiamava lager. Mettere, cioè, al centro dell’attenzione il ruolo delle donne, troppo spesso trascurato, sottovalutato. Riportare in auge l’importanza della memorialistica della deportazione femminile. E intendiamo farlo avvalendosi sia dell’apporto di studiose di rango sia dando voce all’eccezionale testimonianza di figure di donne che sono riuscite a scampare al lager come Paola Vita Finzi ed Elena Ottoleghi mettendo in atto tutti gli escamotages possibili per sfuggire al pericolo sempre possibile della cattura o alla minaccia delle delazioni e di donne come le sorelle Tatiana e Andra Bucci che hanno visto l’inferno con i loro occhi e provato sulla loro pelle marchiata da quel numero indelebile – che peraltro ne rappresentava l’unica forma d’identità nei lager – l’orrore dei campi, degli esperimenti che in essi vi si conducevano, di migliaia di persone mandate alla camere a gas, di bambine come loro separate dalle madri, di neonati soppressi nel nascere, di messa in discussione della vita e di coloro che, in quanto generatrici della medesima, venivano private non solo di cibo, di indumenti, dell’amore dei propri cari, ma anche della loro stessa femminilità.
Un tema, purtroppo, di estrema attualità: basti pensare alla strage nella strage degli attentatori di Charlie Hebdo, che non hanno risparmiato, dopo averli fatti prigionieri, neppure la vita dei quattro malcapitati clienti del negozio koscher, mentre il fallimento di un attentato studiato con dovizia di particolari all’asilo ebraico è stato sventato grazie all’agente che ne sorvegliava l’accesso. Sventato, ma pagando l’alto prezzo di un’altra vita spezzata a soli vent’anni. «Je suis Charlie, je suis juive» verrebbe da dire. A tal proposito suonano come un monito le parole scritte da Rav Giuseppe Laras nei giorni immediatamente seguenti quelle tragiche cinquanta sei ore di vittime, blitz, altre vittime. E poi silenzio. Un silenzio assordante. Un «finta di niente» che paralizza e fa paura: «Siamo in guerra e prendiamo coscienza che siamo solo agli inizi. È la prima volta dai giorni di Adolf Hitler che le sinagoghe in Francia sono state chiuse di sabato. Tuttavia, è unicamente il tragico e spaventoso attentato al giornale Charlie Hebdo che ha scosso gli europei: i molti e continui attentati ai singoli ebrei e alle comunità ebraiche in tutta Europa in questi anni hanno turbato qualcuno, ma per quasi tutti si è trattato “solo” di ebrei. Parimenti non ci sono stati sgomento e allarme per il fatto che da anni ormai, giustamente, gli ebrei francesi abbandonino la “laica” Francia. Così accade in molti altri Paesi europei e il motivo è il medesimo, ovvero il dilagare del terrorismo di matrice islamista, con il suo carico di odio antisemita».
Come dire: in un incedere che non può non farsi nuovamente interrogante, facendo tesoro degli approfondimenti che riteniamo propedeutici al tema in oggetto, si intende concentrare l’attenzione, per un verso, sui luoghi che sono stati teatro di quell’orrore; per l’altro, sui volti che, in ultima analisi, rinviano all’alterità irraggiungibile dell’altro.
Un interrogativo che, dopo l’indagine svolta nel 2012 sul che cosa è stato, intende fare i conti fino in fondo con le maglie nelle quali il male irretisce le sue vittime, a partire da quel controevento che si chiama Shoah, come ebbe modo di definirla Arthur A. Cohen. Perché tutto ciò è stato possibile? Perché Dio tacque e perché quel male ha sedotto così tanti uomini? Perché certe connivenze, certi silenzi? Perché si può ancora sperare dopo quell’orrore? E perché si può parlare di un antisemitismo al di là dell’antisemitismo? Perché, ad Auschwitz, per riprendere Primo Levi, «non c’è perché»?
Sono molti pensatori ebrei e non, i filosofi, i teologi, i rabbini, gli studiosi che si sono confrontati con questo fatto estremo. Da Richard L. Rubenstein che definì la Shoà «il Sinai del nostro tempo» a Ignaz Maybaum che intravide nella morte innocente degli oltre sei milioni di ebrei il darsi di un sacrificio vicario ed espiatorio per i peccati del mondo, a Elie Wiesel, Premio Nobel per la pace nel 1986, che arrivò a dire che «è impossibile continuare a credere, ma è anche impossibile non credere più».Lui che quei campi dell’orrore vide da vicino e che perse tutta la sua famiglia nei lager, riporta in auge quella discussione con Dio, che non è negazione di Dio, ma rifiuto – si pensi solo al celebre saggio La Notte – di ogni forma di teodicea così come della teologia edulcorata degli amici di Giobbe. Il suo, più che un dio sadico o indifferente, è un Dio che vede e tace, ma che piange di nascosto, che afferma, secondo un famoso midrash: «I miei figli mi hanno vinto». Wiesel introduce al grande tema dell’assenza di Dio, al Dio muto o non (più) onnipotente, per dirla con Hans Jonas.