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Domenica, 22 Giugno 2025 17:21

La fine del desiderio

David Le Breton e Francesca Nodari David Le Breton e Francesca Nodari

Chi ha ucciso il desiderio? Se dovesse indicare un solo colpevole, l'antropologo e sociologo francese David Le Breton, 71 anni, punterebbe il dito sul killer più desiderato al mondo: lo smartphone. Il telefonino, con tutti i suoi complici: i social network e, più in generale, internet. Un'overdose digitale e letale. A un antropologo specializzato nelle rappresentazioni e nell'uso del corpo umano, non poteva sfuggire infatti la postura ormai prevalente nell'Homo sapiens: curvo sul portatile, sempre, dappertutto, fin dalla più tenera età. E analizzarne le conseguenze, anche estreme. «Noi entriamo - scrive - in una società spettrale ove, perfino nelle strade, gli occhi sono abbassati sullo schermo in un gesto di adorazione perpetua, e non più spalancati sul mondo circostante». E aggiunge: «Non abbiamo mai comunicato così tanto, ma mai parlato così poco insieme».

Nato e cresciuto a Le Mans, nel nord della Francia, Le Breton è docente di Scienze umane all'Università di Strasburgo, membro del Laboratorio interdisciplinare di studi culturali e dell'Istituto universitario di Francia; e autore di una trentina di saggi, come Antropologia delle emozioni (Armando Editore), La vita a piedi. Una pratica della felicità (Raffaello Cortina), Volti. Un'antropologia e La pelle e la traccia. Le ferite del sé (Meltemi). Il prossimo titolo, in uscita per Mimesis a luglio, quando Le Breton parteciperà anche al festival Filosofi lungo l'Oglio, annuncia proprio la Scomparsa del desiderio e unisce alle tesi dell'antropologo una lunga postfazione della filosofa Francesca Nodari, Esistere o sopravviver

D'accordo, il desiderio è scomparso: ma esattamente di quale desiderio parliamo, professor Le Breton?

«Ammetto una certa ambivalenza nella nozione di desiderio. Io lo intendo come il gusto di vivere, di voler fare cose che ci soddisfano. La riconquista di sé, il rimanere all'ascolto del mondo e di sé stessi. Per esempio, la randonnée, la pratica del camminare insieme permette di ritrovarsi nella natura e in un luogo di conversazione: ci si guarda, si parla, anche soltanto della bellezza del paesaggio e degli animali».

E non è più possibile?

«Sì, ma il desiderio oggi è rovinato dalla colonizzazione del digitale e dello smartphone. Ne siamo divorati. La maggioranza dei nostri contemporanei avanza nell'ipnosi dello smartphone, nello stillicidio delle notifiche dai social. Il portatile ci perseguita, ci segue, ci traccia. Finché non subentra la voglia paradossale di essere assorbiti dal digitale».

Magari di scomparire?

«Esatto, si arriva a essere saturi di responsabilità personali e professionali, alla consapevolezza di non avere più tempo per sé. C'è chi si adatta alla situazione, ma in altri cresce il bisogno di non dover essere sempre raggiungibili. Di sparire. Molte persone lo fanno davvero, da un giorno all'altro, senza più lasciare tracce. Ma esistono altre forme di sparizione: fuggire da sé stessi».

Nei suoi scritti definisce questa fuga uno «sciopero dall'esistenza». Come avviene?

«Nei casi estremi alcol e droga forniscono un mezzo per sparire almeno provvisoriamente. In un'intera bottiglia di vodka molti, troppi ragazzi non cercano l'euforia o la vertigine di una sbronza, bensì il coma etilico, per non essere più lì. Molti trentenni e quarantenni non hanno più voglia di donarsi a un mondo in cui non si riconoscono più. Negli anziani, invece, il declino cognitivo, perfino l'Alzheimer, possono essere interpretati come una forma di esilio interiore, anche se so bene che ci sono componenti genetiche nella malattia».

Ha definito «biancore» questo stato di assenza. Perché?

«In francese si dice j' ai un blanc, per dire "non mi ricordo", non so più". Oppure blanc sur blanc per indicare una pagina bianca. Ed era bianca la balena di Herman Melville, metafora dell'impensabile. Scivolare nel biancore significa il disimpegno sociale, le uscite sempre più rare, la parola sempre più rara».

Gli «hikikomori», i giovani ormai non più solo giapponesi che, incollati agli schermi, non escono più dalle loro stanze, sono i moderni eremiti?

«Potremmo anche definirli monaci postmoderni, perché scelgono la reclusione, ma non cercano la spiritualità e, attraverso internet, restano in comunicazione permanente con il resto del mondo, da Tokyo a Roma o a Toronto. È ancora la ricerca di un narcotico. Si può sparire dietro gli schermi».

Quando nelle case si diffusero i televisori, si diceva la stessa cosa: uccideranno la conversazione in famiglia all'ora di cena.

«È stato l'inizio. L'inizio della fine della vita di vicinato, delle chiacchiere nelle piazze dei villaggi. Ma, anche se si cenava guardando la tv, perlomeno si commentavano i programmi. Adesso i pasti in famiglia sembrano una riunione di zombie, ciascuno concentrato sul proprio tablet o cellulare. Così è scomparso anche il gusto».

Il gusto?

«Sì, l'attenzione per i sapori. Questo spiega, a mio parere, anche il successo dei fast food. La sensorialità si è ridotta. Concentrati sui telefonini, per strada ci si urta, perché non si guarda dove si sta andando. Gli altri scompaiono dalla vista».

C'è una morale da trarre?

«No, io non sono un moralista. Anche se, a volte, mi hanno accusato di esserlo. E non sono nemmeno un nostalgico. Descrivo e faccio un'analisi antropologica e sociologica, ma resto nella neutralità. Lo ripeto anche ai miei studenti: il nostro compito non è giudicare il mondo, ma capire i suoi mutamenti».

Sembra esserci un po' di pessimismo, però, nelle sue osservazioni.

«Al contrario. Quando vedo tante persone in piazza ai festival letterari o di filosofia, come quello lungo l'Oglio, mi commuovo: il mondo è sempre davanti a noi, mai dietro. Siamo gli attori della nostra vita. L'ho sempre pensato».

A Roncadelle, il 17 luglio prossimo, parlerà di «esistere: tra forza e fragilità». Che cosa dirà?

«Sarà un elogio della precarietà esistenziale. Spiegherò che l'incompiutezza è la condizione umana permanente. Se tutto fosse già determinato, se già sapessimo ciò che ci accadrà tra un anno o due, saremmo molto meno interessati alla vita. Prendiamo la decisione che ci sembra giusta, senza sapere se si dimostrerà tale. Ma vivere è un premio infinito».

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