Lo rileva Stefano Mancuso, scienziato e divulgatore di fama internazionale, intervenuto in una gremita piazza a Coccaglio per la rassegna Filosofi lungo l'Oglio diretta da Francesca Nodari con la sua lectio magistralis «La versione degli alberi». Eloquente il titolo: perché la «nostra» versione è figlia di «bolle cognitive» e, nei fatti, le piante non solo popolano massicciamente il globo, ma sono anche creature intelligenti e sensibili, capaci di scegliere, imparare, ricordare e-lo direste? - di «fare rete». «Riteniamo spiega il botanico e professore all'Università di Firenze - che il nostro cervello sia una perfetta mac china logica, come l'Intelligenza artificiale che riproduce il modo in cui noi funzioniamo, ma non è così. Questa visione sbagliata dipende dalle connessioni con le persone del nostro gruppo sociale, con le quali condividiamo le nostre opinioni e che sono molto simili a noi, per cui crediamo che le nostre siano idee di ordine generale, invece riguardano una cerchia ristretta». La nostra concezione antropomorfica (o zoomorfica) trae in inganno: guardando piante, alberi, arbusti, fiori, non vediamo occhi, bocca, orecchie, non li sentiamo respirare né digerire. In più, non replicano la nostra organizzazione gerarchica piramidale, che, anche a livello sociale, presuppone ovunque un capo e altri organi preposti a funzioni specifiche.
Certo, le piante costituiscono un numero talmente enorme che dovrebbe saltare agli occhi, se non fosse per quell'altro fenomeno del «plantblindness» (cecità alle piante), una sorta di «bias cognitivo» che ci caratterizza in quanto troppo è il verde nell'ambiente circostante, al punto di non riuscire a riconoscerne l'importanza per le attività umane e nella biosfera. Tutto ha a che fare con il processo evolutivo (Darwin docet): «Ai primordi - prosegue lo scienziato -, non vedere le piante era un vantaggio evolutivo in quanto focalizzava la nostra attenzione su ciò che era importante per la sopravvivenza. Oggi, però, è il contrario: non vedere le piante è il problema più grande perché non riusciamo a capire come funziona la vita e non comprendiamo nulla di questi esseri così straordinari e diversi da noi».
Tuttavia, se si decide di entrare nell'affascinante mondo degli organismi vegetali, si scoprono cose sorprendenti, per esempio la loro attitudine a vivere in comunità. «Qual è la differenza fondamentale fra un gruppo di piante e un gruppo di animali? - chiede M ancuso -. Sicuramente le piante non si spostano, sono radicate, e su questo non c'è dubbio. Ora, la strategia che l'evoluzione ha premiato non è quella per cui si fanno i dispetti, ma è la cooperazione. Se voi foste alberi, in un bel bosco naturale, le vostre radici sarebbero connesse le une alle altre, una rete sotterranea dove passano informazioni, acqua e nutrimento che tutti condividono». Le piante «realizzano l'utopia, da noi sempre inseguita, per cui ognuno ha ciò di cui ha bisogno per vivere».
Mancuso cita molti esempi e si richiama a personaggi come Einstein (che amava tanto gli «esperimenti mentali»), il botanico Henri Dutrochet (scopritore dell'o smosi), lo zoologo Herbert Spencer Jennings (studioso delle amebe) e la scrittrice statunitense Ursula Le Guin (autrice de «Quelli che si allontanarono da Omelas») . Alla fine, la specie che ne esce peggio non è difficile capire qual è... «Siamo gli unici a non assecondare la spinta fondamentale per sopravvivere. Abbiamo dimenticato che dopo di noi dovrebbero venire altre generazioni per utilizzare le risorse. Ma conclude Stefano Mancuso - sono fiducioso che lo capiremo, perché credo sia impossibile per una specie decidere in maniera unanime di distruggersi».