Professoressa, da quale prospettiva affronterà il tema?
Ho scelto di usare un approccio «autobiografico», per due ragioni. La prima è perché quel che scrivo è vero nel senso che è fatto, fatto da me, come voleva affermare il filosofo Giambattista Vico con la formula «verum factum». La seconda è che mi sembra un approccio coinvolgente, che può portare ognuno a ricostruire la propria storia. La mia è la storia di una bambina, poi di una ragazzina, che scopre sulla propria pelle che «Dio non ama i bambini» (titolo di un bellissimo libro di Laura Pariani), anzi, che in particolare non ama le bambine, o almeno non le amava negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso...
Dalla celebre prova ontologica di Sant'Anselmo a Cartesio. Che validità possono avere le prove razionali dell'esistenza di Dio ai giorni nostri?
Sono chiamate prove, quindi concatenazioni logiche di asserzioni che conducono a una conclusione inconfutabile, vera. O almeno avevano questa pretesa i filosofi medievali che le enunciavano e che sembravano ritenere che presentassero la certezza di dimostrazioni matematiche. Alcune di queste prove sono affascinanti, per esempio quella di Sant'Anselmo che lei cita, e che parte dalla caratteristica della perfezione contenuta nella definizione di Dio; o quella di Descartes che ritiene evidente che l'idea di perfezione, che non è umana, possa esserci stata data soltanto dall'essere perfetto, quindi Dio, che deve di necessità esistere. Ma tutto questo è un po' arido, asettico, tant'è che oggi si preferisce parlare di Dio come amore. Definizione che, però, mi sembra ancor più insostenibile delle precedenti.
Al proposito, Leibniz sollevò anche il problema della coesistenza con il male nel mondo...
Il punto è questo, mi chiedo che cosa significhi la definizione: Dio è amore, che sento ripetere da teologi o da semplici credenti. Amore di chi per chi? Il singolo credente dovrebbe amare Dio in ogni circostanza, e amare il prossimo (e il lontano?) come se stesso, d'accordo. Ma chi ama il credente (o il non credente)? Chi ama i bambini di Gaza, di Kiev e di Teheran, chi ama lei, me oggi, qui e adesso, hic et nunc, non in un'altra vita cui tanto non crede ormai più nessuno? I cristiani rispondono che il male esiste perché siamo liberi. Questo è il pensiero di Sant'Agostino, grande santo e anche grande filosofo, ma che su questo punto non convince. Che male hanno scelto di fare, in libertà, i bambini (e gli adulti) di cui sopra? E tutti gli altri? Perché dovremmo essere maledetti da un peccato originale che non abbiamo commesso ma che si trasmette ereditariamente? O perseguitati da una libertà di fare il male che coinvolge con le sue conseguenze anche tutti coloro che il male non fanno?
L'idea di Dio è ritenuta «fallace» da Kant, in quanto oltrepassa i limiti dell'esperienza, ma anche espressione di un bisogno insopprimibile dell'uomo. Che ne pensa?
Penso che Kant abbia ragione e che la tensione verso il mistero, verso l'inconoscibile del «noumeno», diceva lui, sia insopprimibile e sia anche quello che ci nobilita e ci rende umani. Eppure non ci si arriverà mai, sempre che un noumeno «esista», tanto per tornare sulla parola del festival, esistere, essere in realtà, di fatto, di necessità. A me piacerebbe tanto, banalmente, che Dio esistesse e mi amasse, mi volesse bene, volesse che io stessi bene, ma trovo più coerente il comportamento degli indifferenti dèi di Epicuro.
Nel suo cammino «autobiografico», quale sarà il punto di approdo?
Chi lo sa? Lo sa Iddio, si dice, si diceva, per dire che non lo sa nessuno, oppure per significare che lo sa chi è onnisciente, ancora Dio. Io non lo so di certo.