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Martedì, 22 Giugno 2010 02:00

Nancy: il corpo come teatro sulla scena del mondo

Folla per il filosofo a Padernello. Folla per il filosofo a Padernello.

Folla per il filosofo a Padernello. Attrazioni e repulsioni, traversate e spinte, prese e abbandoni nell’esserci» delle persone. Spettatori assiepati sullo scalone d’onore settecentesco del Castello di Padernello e nella sala attigua, dove il relatore poteva vedere la sua immagine replicata in video: «Come nelle “Meninas” di Velàsquez», ha osservato sorridendo Jean-Luc Nancy. Lo studioso francese è stato protagonista sabato sera, del secondo appuntamento di «Filosofi lungo l’Oglio», la rassegna itinerante di conferenze curata da Francesca Nodari che mostra quanto elevata – e sottovalutata – sia la capacità di richiamo del pensiero.

Dall’alto dello scalone, seduto in poltrona, Nancy si è detto «stupefatto di questo palcoscenico meraviglioso». Nato nel 1940, già docente presso le Università di Strasburgo, San Diego e Berkeley, è considerato uno dei più interessanti filosofi viventi. In questa edizione dedicata al tema del corpo, ha letto un testo in italiano proponendo una riflessione, densa e non facile, sul «corpo come teatro».

Ad ogni risveglio, «ogni volta che vengo al mondo» dice Nancy, sono immediatamente trascinato in esso da tutte le forze del mio corpo. «Essere nel mondo non è uno spettacolo»: è piuttosto «scontro e mischia», un succedersi di «attrazioni e repulsioni, traversate e spinte, prese e abbandoni, impossessamenti e spossessamenti». È l’«essere gettato» di cui parla Heidegger, una condizione entro cui «esistere significa rimettere continuamente in gioco i proprio abbozzi».

Il progetto dell’esistenza incorpora però anche il suo «mettersi in scena». Ad ogni risveglio, le palpebre si aprono «per lo sguardo possibile e certo di una moltitudine di altri». Il sipario si solleva su una scena, cioè «sullo spazio proprio di una venuta alla presenza». Addossati «all’oscurità di noi stessi», impossibilitati a conoscerci come soggetti gettati nel mondo, diventiamo «presenza» solo attraverso lo sguardo dell’altro.

Il mondo, anzi, è una «disposizione di presenze». Come sul palcoscenico di un teatro, la presenza consiste «nell’esposizione, nella presentazione, nella venuta, nell’approccio e nell’allontanamento». Ogni giorno, a comparire sulla scena del mondo non è un indistinto «Io», «punto sempre incorporeo di qualunque soggetto»: sono gli occhi di questo «Io» ad aprirsi, «e così la sua bocca e le sue orecchie, il suo corpo si estende, si espande, si dispone»; e allo stesso modo «ciò che dell’altro viene, si avvicina e ci tocca è la bocca, la voce, così come sono gli occhi che si avvicinano, il loro sguardo, il loro modo di fissare e di esaminare».

Nancy cita Antonin Artaud, il celebre regista e teorico teatrale del primo ‘900, che considerava il teatro come il «doppio» della realtà «inumana» della Creazione: dal «condensarsi» di una Volontà unitaria e non conflittuale scaturisce l’effettività di un cosmo attraversato da conflitti»; «l’idea del cosmo è l’idea della pluralità e non c’è creazione che non sia innanzitutto distinzione, separazione, spaziamento». La disposizione dei corpi nello spazio e nel tempo ne consente la reciproca esposizione, che costituisce la loro essenza: «Il teatro è già cominciato negli spazi intersiderali oppure nello spaziamento infinitesimale delle particelle».

Ma è con il «corpo parlante» dell’uomo che «questa comparizione delle cose che si chiama cosmo» può diventare dicibile. Attraverso il reciproco guardarsi, ogni parte del corpo permette di accostarsi all’anima: «Le mie mani, le mie gambe, il mio collo, la mia postura, la mia andatura, i miei gesti, ma mia mimica e la mia aria, il timbro della mia voce, tutto quello che si potrebbe chiamare la pragmatica del corpo espone, annuncia, dichiara qualcosa».
Ogni corpo intraprende un dramma; e su questa scena, osserva Nancy, «gli affetti sono soltanto le modulazioni e le trascrizioni della grande tensione primordiale tra i corpi», che «si rapportano gli uni agli altri, non “attraverso” l’incorporeo che li distingue ma come quell’incorporeo stesso».

Solo a teatro, dice il drammaturgo Paul Clodel, «accade veramente qualcosa». Qui, infatti, il testo si fa corpo. Così, nella nostra vita, «un senso può aver luogo solo tra l’uno e l’altro e dall’uno all’altro, può essere sentito solo dall’uno attraverso l’altro». La soggettività, da «macchia cieca» si fa parola corporea, «gioco intensivo della presenza»: «tempo sottratto al corso del tempo, insonnia nella notte che circonda il teatro e nella quale calano, insieme al sipario, attori, scena e spettatori».

Nicola Rocchi - Giornale di Brescia, 22 giugno 2010

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