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Martedì, 10 Febbraio 2015 20:04

Il dono semplice difficile e sublime del saper dire grazie

A volte basterebbe saper dire grazie. Eppure nelle nostre vite di corsa, sembra che si sia persa non tanto o solo l’abitudine, ma soprattutto la consapevolezza che sottende il «Dire grazie». Espressione che è anche il titolo del pregevole volume di Massimo Giuliani e Paolo De Benedetti, e che ha per sottotitolo: «L’hallelujah della gratitudine» (Morcelliana, 80pp., 10 u). Parola quest’ ultima, che pare piuttost odémodé e in cui l’ iperindividualismo e l’affermazione ostinata della propria volontà di potenza sembrano annullare qualsiasi possibilità di attualizzazione di ciò che non è solo un mero gesto, ma obbligo morale, dono, apertura verso altri e l’Altro.

Più di un sentimento ma anche precetto che vira in imperativo universale. Massimo Giuliani affronta il tema offrendo un’analisi a tutto tondo, che spazia dall’insegnare ai bambini a dire grazie, agli innumerevoli esempi più o meno espliciti di gratitudine o del suo contrario: Dio che esenta Mosé dal porre il bastone sulle acque del Nilo, che lo salvarono; Pompeo che viene fatto giustiziare dal giovane sovrano Tolomeo, che volle con tal gesto ingraziarsi Cesare. E via dicendo. L’autore mostra come in vari racconti siano gli animali a dare prova di riconoscenza: si pensi al cane di Ulisse, ma anche - aggiungiamo noi - a quello di nome Bobby che accoglieva i prigionieri del campo nazista nella regione di Hannover (tra loro c’era Levinas) coi suoi latrati di gioia, a lpunto d imeritarsi la definizione di «ultimo kantiano della Germania nazista».

Ma anche nelle opere pittoriche si assiste a ciò: emblematica, come ha sottolineato Bernhard Casper, la compassione del cavallo posto dal Civerchio, nella sua Salita al Calvario, alla sinistra del dipinto, in un movimento inarrestabile verso il Golgota, ove solo lo sguardo stupito dell’equino si volge, quasi a voler rendere grazie, verso Colui che barcolla sotto la croce.

Nella letteratura filosofica molti si sono occupati, a partire da punti di vista diversi, della nozione di gratitudine: chi tessendone un’ermeneutica come Ricoeur, chi teorizzando il carattere an-economico del dono (Derrida), chi ritenendo che esso sia cosa di questo mondo (Jankélévitch), chi proponendone una fenomenologia (Marion), chi sostando sull’ inevitabile asimmetria tra Moi e Autrui (Levinas) fino all’ambivalenza - sempre possibile - che si cela nella dicotomia tra obbligo e gratuità.

Ma se è vero che: «il sentimento di gratitudine è una delle espressioni più evidenti della capacità di amare», il sentimento che si fa precettosta, per così dire, in una correlazione biunivoca con l’autenticità del dono. Di qui,il senso profondo che acquisisce l’ono- re (kavod )per i genitori, la benedizione giudaica dopo i pasti,il riconoscimento da parte del popolo ebraico dei «giusti tra le nazioni»: una gratitudine che, in ultima analisi, trova in Dio il destinatario supremo.

E se il nome dell’ebreo è già indice di gratitudine: jehudì/jehudà la cui radice trilittera genera i sostantivi hodaià e todà, che significano ringraziamento/lode, non meno lo è l’espressione che troviamo nei riti religiosi del giudaismo e nella liturgia cristiana ossia: l’hallelujah, che vuol dire: «Date lode a Dio», al punto che «l’hallelujah diviene - insegna De Benedetti - una formula dialogica che nasce da un reciproco dare e ricevere».

Adessa è strettamente conness a un’altra locuzione comune: l’ hosanna, ossia «Deh, salvaci». Di qui un interrogativo cruciale: cosa sarebbe un’ hosanna, se non si facesse hallelujah? Qui si comprende l’importanza del rendere grazie che accade nell’Eucaristia come attraverso la Benedizione. E Dio? Ci assicura il Suo sguardo e poiché Egli è colui che fa tornare vivi i morti «nel regno dei cieli - ammonisce De Benedetti - l’hallelujah passerà dalla seconda alla prima persona plurale: non più lodate, ma lodiamo».

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