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Domenica, 23 Novembre 2025 01:49

MA IL SEGRETO DI PULCINELLA NON MUORE MAI

In un'epoca disincantata e ignara di qualsiasi trascendenza, il libro di Sergio Givone, La ragionevole speranza. Come i filosofi hanno pensato all'aldilà, costituisce un atto di intelligente provocazione e un tentativo coraggioso di indagare il grande tema della vita dopo la morte. L'occasione scaturisce dal racconto del commiato di Sergio Staino a Palazzo Vecchio, cui molti amici dichiaratamente atei augurano: «buon viaggio». Si vive per morire, per lasciare spazio ad altri. Forse si vive per ritrovare, nel cuore della morte, il principio della vita. Del resto che ragione e scopo della vita, oltre che suo termine naturale, sia la morte, è un segreto di Pulcinella. Ah, Pulcinella, con il suo segreto che non è un segreto: Pulcinella è un morto di fame - cosa non fa per un piatto di maccheroni? - che non muore mai. Pulcinella è immortale perché incarna meglio di chiunque altro il mistero della vita e della morte. Pulcinella vincit, come sostiene il suo illustre scultore Lello Esposito. Interrogarsi sull'aldilà è questione che ha interessato sin dagli albori la filosofia.

La riflessione sull'immortalità dell'anima è stata da Socrate consegnata a Platone, da questi a Plotino e poi al neoplatonismo fino alla mistica speculativa. D'altro canto, lo stesso Kant sosteneva che la vita eterna è faccenda che riguarda la filosofia prima ancora che la religione, mentre Jaspers parlava di una «fede filosofica» in grado di fare un po' di luce sulla questione. Questione che si fa complessa se si pensa a Parmenide, il filosofo dell'essere che è, e che non può non essere. L'essere è pienezza, rotondità, perfezione: quell'Uno che non conosce né vita né morte, che era già da sempre lì e sempre lo sarà. Non potrebbe esserci esclusione più perentoria di un qualsiasi aldilà. Con i moderni si fa strada la convinzione che l'intelletto ci inchiodi alla nostra condizione, come già intuì Pindaro, di «esseri effimeri, inconsistenti, fatti di nulla». Una miseria che riecheggia nell'aforisma 125 della Gaia scienza di Nietzsche nel quale l'uomo folle, fa notare Givone, non è l'oltre uomo. Semmai è l'ultimo uomo che ha la nostalgia di Dio e si aggira domandandosi che fine abbia fatto.

A ciò sembra fare eco, due secoli prima, Blaise Pascal, che trovandosi a brancolare nel buio, sta con una lanterna in mano. Preziosissima, ma solo una lanterna, la ragione, e non quel che un tempo era stata, cioè Dio. Spaventato dal «silenzio eterno di questi spazi», Pascal ritiene l'infinito incomprensibile e insieme necessario. In fondo, che cos'è la nostra vita se non una manciata d'anni? Sofferenze e dolori, questi sì. E se le cose stanno così, cosa fare? Il filosofo conclude che non resta che scommettere: scommettendo su Dio, se Dio esiste guadagniamo tutto, mentre se non esiste perdiamo poco o niente. Scommettendo contro Dio, se Dio non esiste perdiamo poco o niente, se esiste perdiamo tutto.

Di tutt'altro avviso Anassimandro che individua il «principio dei viventi», nell'àpeiron ossia l'infinito-indefinito da cui tutti i viventi scaturiscono ed insieme la tomba in cui tutti viventi si dissolvono. Qui non c'è nessuna divinità. C'è soltanto la legge secondo necessità, per cui i viventi sono tenuti a onorare il debito contratto nel momento in cui sono venuti al mondo: espiare significa restituire il prestito, riscattare il destino, che è destino di morte: «Pathei mathos», «sapere attraverso la sofferenza», disse Eschilo. Lo stesso invito di Qohélet a godere dei pochi momenti di allegrezza che la vita offre, arriva dopo una lunga meditazione sulla vanità del tutto. La sola cosa che resta a quel «fumo di fumi», che è l'uomo, è l'adesione alla grazia di essere in vita.

Per Kant, invece, la stella polare è La virtù. E il sommo bene è la virtù insieme con la felicità. Il sommo bene è Dio. Ma esiste Dio? Non lo sappiamo. Un abisso separa il mondo fenomenico - cioè quello che vediamo, tocchiamo e sperimentiamo - e il mondo noumenico. Eppure Dio, benché inconcepibile ed inimmaginabile, può essere sperato. Cruciali, qui, sono le quattro domande che Kant porrà nel1787: «Che cosa posso conoscere? Che cosa devo fare? Che cosa è ragionevole sperare? Chi è l'uomo?». Alla prima risponderà: posso conoscere ciò che rientra nel mio campo d'esperienza. Alla seconda: devo fare quello che devo e non quello che vorrei e alla terza: ho motivo di sperare che Dio esiste. Tutto ruota e si decide intorno ad essa. Alla quarta non risponde. Lascia però intuire la risposta: l'uomo può essere degno dell'inferno e anche del paradiso.

Sul finire del testo, Givone torna a Socrate che, prima di morire, nel Fedone, persuade gli astanti in lacrime che l'anima è immortale. Perché avesse scelto la morte è lui stesso a ricordarlo: per tutta la vita il filosofo si è preparato a morire. A morire per il bene. Dal canto suo, Platone è disposto ad ammettere che, nell'aldilà, la sorte dei buoni e dei cattivi sarà diversa, ma non esita a dire, rivolgendosi alle anime per bocca di Er, nel X Libro della Repubblica, che: «non sarà un demone a scegliere voi, ma sarete voi a scegliere il vostro demone»: è il grande paradosso della responsabilità per il destino.

In effetti, anche se nessuno ha deciso divenire al mondo, la vita che viviamo è anche quella che vogliamo e che scegliamo di vivere. Allora non resta che la ragionevole speranza. E se possibile, suggerisce Givone, «cerchiamo di entrare nella morte ad occhi aperti» come Marguerite Yourcenar fa dire al suo Adriano. 

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