Skip to main content
Giovedì, 26 Giugno 2025 17:06

L'ECONOMISTA ZAMAGNI: LA VITA TRISTE DELLA COMPETIZIONE»

Stefano Zamagni Stefano Zamagni

Come si spiega il successo mondiale di «Squid Game», in cui centinaia di personaggi competono tra loro in un cruento gioco di sopravvivenza, con un montepremi in denaro? Forse, la popolarità di questa e di altre serie tv incentrate su prove al limite della resistenza umana dipende dal fatto che nei loro plot si rispecchiano - in forme esasperate - dei meccanismi di selezione-esclusione presenti nella società reale?

Avrà come titolo «Vivere per performare intristisce l'esistenza: un'alternativa all'odierno paradigma prestazionale» la conferenza aperta al pubblico che l'economista Stefano Zamagni terrà questa sera alle 21 a Leno (Brescia) presso Villa Badia, in via Guglielmo Marconi; l'incontro rientrerà nella XX edizione del festival itinerante «Filosofi lungo l'Oglio», con eventi in programma - come negli scorsi anni - nelle province di Brescia, Cremona e Bergamo.

Già docente dell'Università di Bologna e della Bocconi a Milano, Zamagni ha anche presieduto l'Agenzia per il terzo settore e la Pontificia Accademia delle Scienze sociali: «La parola-tema di "Filosofi lungo l'Oglio" nell'edizione 2025 - egli spiega - è "Esistere". Nel mio intervento, affronterò la questione se un essere umano abbia un valore incondizionato per il fatto stesso che esiste, o se si debbavivere allo scopo di performare, di garantire risultati di alto livello. Nella mentalità corrente, anche se non si ha il coraggio di dirlo a voce alta, si sta imponendo la seconda idea: da circa 30-35 anni, in corrispondenza con lo sviluppo dei sociale delle tecnologie digitali, si è andato affermando il principio per cui ciascuno di noi sarebbe tenuto a "dare il massimo", in ogni circostanza, per non essere superato dagli altri. Del resto, nei luoghi di lavoro, come anche nella scuola, sempre più spesso si ricorre alla gamification». 

A forme di gioco competitivo?

«Per migliorare le prestazioni delle persone, si propone loro (o per meglio dire: si impone loro) di gareggiare con sé stesse, ottenendo punti e altri incentivi psicologici a seconda degli obiettivi raggiunti. Attraverso tabelle che determinano il ranking dei singoli soggetti, questi sono indotti ad andare sempre un po' più in là, a mirare a mete sempre più ambiziose».

Di questo passo, nella scuola, il piacere dell'apprendimento finirà con l'essere relegato in secondo piano?

«Non solo: sta venendo meno anche un comune "spirito di corpo" tra compagni di classe o di corso. Gli altri divengono rivali, antagonisti contro i quali competere. Si spiega, dunque, perché nelle scuole e nelle università si stiano moltiplicando forme più o meno esplicite di micro-conflittualità, oltre che un sentimento di profonda stanchezza, di esaurimento emotivo. Sul lavoro, poi, la tendenza alla gamification agisce in modo ancora più subdolo. Reintroduce in forme surrettizie il vecchio principio - che pensavamo definitivamente dismesso - del "taylorismo"».

Ricordiamo che l'ingegnere statunitense Frederick Taylor, all'inizio del Novecento, aveva proposto di suddividere «in chiave scientifica» le mansioni di ogni lavoratore, in modo da massimizzarne le prestazioni.

«Però, nel corso del tempo, si era constatato quali fossero i costi umani ditale impostazione, in termini di alienazione dei lavoratori e di una loro disaffezione verso i compiti assegnati. Nel modello taylorista, toccava a un elemento gerarchicamente superiore (il caporeparto o il capufficio) controllare le azioni degli altri lavoratori, sanzionandoli nel caso in cui le ritenesse inadeguate. Adottando il modello della gamification, invece, il controllo viene esercitato dal lavoratore su sé stesso: monitorando il punteggio assegnato alle sue prestazioni, egli sa in ogni preciso momento in quale posizione si trovi, nella "classifica" interna all'azienda. Sa che cosa dovràfare, se vuole ottenere un incentivo salariale o evitare di perdere il posto. Il dispositivo di controllo, ferocissimo, ora è totalmente introiettato».

La categoria biblica della «creazione» non offre un possibile rimedio contro l'ossessione prestazionale? Diversi teologi, come Hugo Rahner e Jiirgen Moltmann, hanno affermato che se Dio ha creato peramore, gratuitamente l'uomo, questi non è tenuto a giustificare la sua esistenza: non deve «meritarsi di vivere», ma semplicemente gioire di quanto gli è stato donato.

«Anche prescindendo dalla dimensione della fede, sul piano antropologico il cristianesimo si pone in contrasto frontale con l'idea per cui un uomo varrebbe in base a quanto produce, per le prestazioni che offre. Il problema è che il "paradigma prestazionale" oggi rischia di infiltrarsi anche nella Chiesa. Non basta indignarsi o reagire con perorazioni di principio: i credenti devono ricominciare a pensare, per poter rispondere alle sfide che le nuove tecnologie e le trasformazioni sociali in atto pongono. Occorre, soprattutto, che essi siano capaci di un pensiero "secondo verità", ancorato alla realtà e orientato sui fini; non solo di un pensiero calcolante, strumentale, incentrato semplicemente su mezzi e procedure». 

Le Video lezioni

Sul nostro canale youtube puoi trovare tutte le video lezioni del nostro Festival di Filosofia.