Di fretta, incapace di attesa e di ascolto, indaffarato e sempre più solo. Arrogante e chiuso in sé stesso. Sollecitato a dare un'immagine positiva di sé, a «giocare» una parte, come se fosse un attore di una commedia, mentre l'epoca del panopticon sta per avanzare. Sono questi i principali tratti del soggetto contemporaneo che Pier Aldo Rovatti coglie nella sua ultima fatica: Dentro le parole. Per una critica dell'individualismo. Una lettura particolarmente acuta del nostro presente che prende avvio da un doppio movimento: avvicinarsi ed allontanarsi dalle parole che, come ri cordava Eugenio Borgna, sono delle «creature viventi» e alla cui «vita» va rivolta un'attenzione particolare, anche quando si tratta di parole ad ampio raggio quali: «guerra», «pace», «libertà», «realtà», «umanità».
L'autore avverte subito dell'uso insistito delle virgolette che spiega come un modo per avvicinarci criticamente(e autocriticamente)alle parole profonde che adoperiamo senza pensarci.Formatosi alla scuola di Enzo Paci, Rovatti fornisce una fenomenologia fedele degli esiti estremi cui hanno condotto — quasi fossimo sull'orlo del precipizio — «l'infocrazia» imperante,la fusione pericolosa tra mondo virtuale e mondo reale e, soprattutto, il trionfo dell'individualismo radicale, che possiamo identificare con il nostro ego,ma che nella sua sostanza più profonda coincide con la nostra incapacità di considerare che esistono gli altri fuori di noi. Ne segue un clamoroso paradosso:da un lato, vorremmo sfuggire all'anonimato consolidando il valore dell'individuo, dall'altro ci stacchiamo dalla «socialità» proprio quando dovremmo riconoscerla.
Sulla scia di quel pensiero debole promosso con Gianni Vattimo, Rovatti invita a «bucare» l'oppressività del presente, immettendovi delle «pause». Richiama più volte alla pratica della «sospensione». Evoca le virtù dell'esitazione e della pazienza, soffermandosi sull'uso non spiritualistico della parola «carità» collegabile alla difficoltà di prestare ascolto a ciò che ci viene detto. Questa caritas, di cui siamo privi, non andrebbe confusa con la pietas: esse hanno un rapporto di buon vicinato, però non possiamo farle coincidere. La carità interpretativa è essa stessa «un'etica minima»,che è appunto un esercizio di attesa, di pazienza, di sospensione. Dietro questa fatica sta l'assillante questione della «verità».
Oggi abbiamo disperatamente bisogno di credere in qualcosa. Così andiamo a cercare siti e fonti di notizie che corrispondono alle nostre esigenze, tuttavia c'è una trappola che può mettere in crisi il nostro spirito critico: il supporre che si possa arrivare alla verità delle cose attribuendo a questa parola,"verità", il potere di cancellare l'incertezza. Il fatto è che siamo circondati da un "troppo di verità" che ci disorienta, mentre, sulla scorta di Foucault, dovremmo rifarci a"quel poco di verità" che sia abitabile da ciascuno di noi. «Pare che oggi - scrive il filosofo - ci stiamo e ci stanno vietando il sorriso (...) Chiamo sorriso qualcosa che ha a che fare essenzialmente con il "gioco" e con la nostra stessa "libertà"». Rovatti insegna che per tornare ad essere liberi dovremmo imparare, di nuovo, a giocare: il "gioco" si identifica, secondo l'Autore, con la capacita di mettersi in gioco, con la possibilità di manifestare se stessi. Ora, libertà è il contrario di oppressione, ma quali sono i tratti dell'essere libero? Libertà significa, soltanto, essere liberi di fare ciò che si vuole? E se la libertà fosse anche, e soprattutto, quella condizione soggettiva raggiunta la quale il grugno si trasforma in un sorriso,in una sorta di apertura del soggetto?
In una sorta di avvio di quel processo che passa attraverso la messa in questione radicale di sé stessi? Si tratta di distruggere «l'io» che ci siamo costruiti tentando di sospenderne l'automatismo. Se qualcuno (Carlo Emilio Gadda) si è spinto a qualificare il pronome «io» come il peggiore dei pronomi,il sostantivo "individuo" dà sostanza ad uno scivoloso ego,rassicurandoci. Di qui la necessità di mettere in campo un pensiero critico per guardare da vicino la parola"individuo" e renderci consapevoli che, in essa, c'è qualcosa che si dissolve della sua forma gloriosa.Tale termine contiene una negazione presente in quel «in», che è,appunto, «non». «Individuo» significa, alla lettera, "non divisibile". Ciò non può che condurci alla consapevolezza che occorre uscire dal bozzolo di una pura e semplice unità ed aprirsi alla diversità, all'alterità, all'esperienza vissuta del tempo, pena la falsificazione della realtà, il restare ingabbiati in un presente inabitabile e l'assistere ad una totale disidratazione etica, sconfinando nella convinzione del "tutto è possibile".
Dopo l'esperienza traumatica del Covid, siamo diventati ancora più inquieti, più indifferenti, persino più violenti.In una parola ci siamo barricati nel nostro ego, come fosse una"bolla". Ecco il disastro nel disastro: come è possibile che la voglia di"fare società", senza la quale Ia vita si riduce ad una solitudine angosciante, possa realizzarsi se tutti restiamo chiusi in noi stessi? Se l'altro resta là fuori? Se dimentichiamo che tutti impersoniamo una soggettività sociale, senza la quale l'esperienza individuale decade nell'isolamento individualistico? Qui parrebbe, davvero,che il tempo stia per scadere se consideriamo il fatto che parole come «socialità» e «socievolezza» sono diventate sempre più vuote e rischiano di perdere il senso che avevano.
Di fretta, incapace di attesa e di ascolto, indaffarato e sempre più solo. Arrogante e chiuso in sé stesso. Sollecitato a dare un'immagine positiva di sé, a «giocare» una parte, come se fosse un attore di una commedia, mentre l'epoca del panopticon sta per avanzare. Sono questi i principali tratti del soggetto contemporaneo che Pier Aldo Rovatti coglie nella sua ultima fatica: Dentro le parole. Per una critica dell'individualismo. Una lettura particolarmente acuta del nostro presente che prende avvio da un doppio movimento: avvicinarsi ed allontanarsi dalle parole che, come ri cordava Eugenio Borgna, sono delle «creature viventi» e alla cui «vita» va rivolta un'attenzione particolare, anche quando si tratta di parole ad ampio raggio quali: «guerra», «pace», «libertà», «realtà», «umanità».
L'autore avverte subito dell'uso insistito delle virgolette che spiega come un modo per avvicinarci criticamente(e autocriticamente)alle parole profonde che adoperiamo senza pensarci.Formatosi alla scuola di Enzo Paci, Rovatti fornisce una fenomenologia fedele degli esiti estremi cui hanno condotto — quasi fossimo sull'orlo del precipizio — «l'infocrazia» imperante,la fusione pericolosa tra mondo virtuale e mondo reale e, soprattutto, il trionfo dell'individualismo radicale, che possiamo identificare con il nostro ego,ma che nella sua sostanza più profonda coincide con la nostra incapacità di considerare che esistono gli altri fuori di noi. Ne segue un clamoroso paradosso:da un lato, vorremmo sfuggire all'anonimato consolidando il valore dell'individuo, dall'altro ci stacchiamo dalla «socialità» proprio quando dovremmo riconoscerla.
Sulla scia di quel pensiero debole promosso con Gianni Vattimo, Rovatti invita a «bucare» l'oppressività del presente, immettendovi delle «pause». Richiama più volte alla pratica della «sospensione». Evoca le virtù dell'esitazione e della pazienza, soffermandosi sull'uso non spiritualistico della parola «carità» collegabile alla difficoltà di prestare ascolto a ciò che ci viene detto. Questa caritas, di cui siamo privi, non andrebbe confusa con la pietas: esse hanno un rapporto di buon vicinato, però non possiamo farle coincidere. La carità interpretativa è essa stessa «un'etica minima»,che è appunto un esercizio di attesa, di pazienza, di sospensione. Dietro questa fatica sta l'assillante questione della «verità».
Oggi abbiamo disperatamente bisogno di credere in qualcosa. Così andiamo a cercare siti e fonti di notizie che corrispondono alle nostre esigenze, tuttavia c'è una trappola che può mettere in crisi il nostro spirito critico: il supporre che si possa arrivare alla verità delle cose attribuendo a questa parola,"verità", il potere di cancellare l'incertezza. Il fatto è che siamo circondati da un "troppo di verità" che ci disorienta, mentre, sulla scorta di Foucault, dovremmo rifarci a"quel poco di verità" che sia abitabile da ciascuno di noi. «Pare che oggi - scrive il filosofo - ci stiamo e ci stanno vietando il sorriso (...) Chiamo sorriso qualcosa che ha a che fare essenzialmente con il "gioco" e con la nostra stessa "libertà"». Rovatti insegna che per tornare ad essere liberi dovremmo imparare, di nuovo, a giocare: il "gioco" si identifica, secondo l'Autore, con la capacita di mettersi in gioco, con la possibilità di manifestare se stessi. Ora, libertà è il contrario di oppressione, ma quali sono i tratti dell'essere libero? Libertà significa, soltanto, essere liberi di fare ciò che si vuole? E se la libertà fosse anche, e soprattutto, quella condizione soggettiva raggiunta la quale il grugno si trasforma in un sorriso,in una sorta di apertura del soggetto?
In una sorta di avvio di quel processo che passa attraverso la messa in questione radicale di sé stessi? Si tratta di distruggere «l'io» che ci siamo costruiti tentando di sospenderne l'automatismo. Se qualcuno (Carlo Emilio Gadda) si è spinto a qualificare il pronome «io» come il peggiore dei pronomi,il sostantivo "individuo" dà sostanza ad uno scivoloso ego,rassicurandoci. Di qui la necessità di mettere in campo un pensiero critico per guardare da vicino la parola"individuo" e renderci consapevoli che, in essa, c'è qualcosa che si dissolve della sua forma gloriosa.Tale termine contiene una negazione presente in quel «in», che è,appunto, «non». «Individuo» significa, alla lettera, "non divisibile". Ciò non può che condurci alla consapevolezza che occorre uscire dal bozzolo di una pura e semplice unità ed aprirsi alla diversità, all'alterità, all'esperienza vissuta del tempo, pena la falsificazione della realtà, il restare ingabbiati in un presente inabitabile e l'assistere ad una totale disidratazione etica, sconfinando nella convinzione del "tutto è possibile".
Dopo l'esperienza traumatica del Covid, siamo diventati ancora più inquieti, più indifferenti, persino più violenti.In una parola ci siamo barricati nel nostro ego, come fosse una"bolla". Ecco il disastro nel disastro: come è possibile che la voglia di"fare società", senza la quale Ia vita si riduce ad una solitudine angosciante, possa realizzarsi se tutti restiamo chiusi in noi stessi? Se l'altro resta là fuori? Se dimentichiamo che tutti impersoniamo una soggettività sociale, senza la quale l'esperienza individuale decade nell'isolamento individualistico? Qui parrebbe, davvero,che il tempo stia per scadere se consideriamo il fatto che parole come «socialità» e «socievolezza» sono diventate sempre più vuote e rischiano di perdere il senso che avevano.