Schiavi della prestazione, bombardati dagli "infomi", concentrati sul proprio ego. Usiamo lo smartphone come un devozionale senza più incontrare lo sguardo dell'Altro. E se va bene sentiamo,non ascoltiamo la sua voce. Siamo uomini in quanto individui,ma è pro- prio così che siamo morti. Morti convinti di essere vivi. E se a ciò si aggiunge il materialismo brutale e nichilistache accentuale ingiustizie sociali e danneggiala salute del pianeta,non possiamo non concludere che questa condizione costituisca un'assicurazione sull'infelicità. Solo «due parole vaghe» di cui «se ne può parlare in modo confuso, con passi che somigliano a quelli di un cielo in un bosco fitto»: la poesia e la spiritualità possono aiutarci a favorire quella rigenerazione dell'umano che sappia porre al centro la relazione, l'incontro, il prendersi cura. In fondo siamo «animali spaventati, incapaci di affidarci e di credere».
Non sarà, forse, l'eclissi del sacro ad aver creato una pericolosa miseria spirituale? Da queste pre- messe muoveil coraggioso libro di Franco Arminio,poeta e "paesologo", e di Guidalberto Bormolini, sacerdote e tanatologo: Accorgersi di essere vivi. Un breviario per chi ha perso la via.
Un testo ove poesia e prosa si intersecano e si alleano per affermare con forza che è necessario un radicale ripensamento dell'umano con un suo allargamento agli animali e alle piante. Come non rammentare La teologia degli animali di Paolo De Benedetti e quel «gemito della creazione» che ritroviamo nel capitolo VIII della Lettera ai Romani dell'apostolo Paolo?
«Vuoi che il mondo cambi? — avverte Bormolini — smetti di gridare la tua rabbia,inizia a cantare la tua canzone d'amore e forse parteciperai alla ri-creazione del mondo». In questo mondo sempre piùiperconnesso è come se avessimo smarrito la capacità di meravigliarci,di provare stupore dinnanzi a un cielo stellato simile a quello che illumina il deserto della Persia, o quello della Tebaide nel quale sostava in meditazione, notti intere, Sant'Antonio l'Anacoreta, inebriato di estasi pregando il sole di non disturbarlo poiché lo privava del chiarore della luce vera.
Lo spettacolo di un tramonto, delle foglie d'autunno cheriempiono il bosco di colori non sono altro che segni e preludio di quell'oltre verso il quale il "cocciuto sé" dovrebbe tendere. In questo dramma dell'umanità attraversata da guerre, violenze, prevaricazioni, indifferenza e dolore ci dimentichiamo che «siamo animali che possono farsi delle gentilezze», «che siamo un niente — scrive Arminio — che affratellandosi a un altro niente diventa qualcosa».
Uno dei mali del nostro tempo si chiama solitudine. Purtroppo dalla pandemiasiamo usciti più incattiviti di quanto già nonfossimo. Non abbiamo imparato la lezione. Siamo «individui alla deriva nel regno del ci sono solo io». Invece, avremmo bisogno disaper ascoltare «prima di tutto chi non parla», avremmo bisogno di qualcuno che testimoni con la propria vita che l'impossibile è possibile, che la morte non èl'opposto della vita,ma un'esperienza della vita stessa. Doremmo renderci conto che la sofferenza puòimprimere una direzione all'esistenza, che la rende sopportabile. Rivisitando l'espressione di Bernardo di Chiaravalle — suggerisce lo tanatologo, che di persone ne ha viste tante morire senza essere sazie divita — dovremmo prendere sul serio queste parole: «Troverai più cose nei letti dei malati che nei libri. Sofferenti e persone che hanno perso la via ti insegnano cose che nessun maestro ti potrà dire».
Ecco che l"io storico" e "carnale"che attraversala poesia di Arminio e la prosa di Bormolini supera di gran lunga l"io grammaticale" per ricordarci della nostra finitudine, della nostra vulnerabilità e per rammentarci che si fa peccato, nel senso etimologico di «sbagliare mira», se crediamo che il desiderio di Infinito ce lo possano offrire i sacerdoti del consumismo che ci vogliono longevi per interesse. Del resto viviamo in una società opulenta, dell'inutile e dello spreco.
Uno studio americano ha accertato che in una casa si accumulano circa 3oomila oggetti, che trascorriamo più di duemila giorni della nostra vita a comprarne di nuovi cosicché alla crescita espo- nenziale degli oggetti si contrappone la riduzione drastica direlazioni e di rapporti d'amore duraturi. Sta in questo tempo sottratto ailegami e alla socialità il principale rimpianto dei morenti: «vivere è credere e fidarsi più che prendere, pretendee, aspettare». Vivere è non ignorare la malattia, la vecchiaia e la morte.
Secondo i greci sono due le immagini che indicano il modo in cui il sapiente affronta la vita: una è la lotta, che suggerisce l'idea di resistere alle sfide; l'altra è la danza, che fa segno all'idea di abbandonarsi ad un movimento armonioso. Ora, rinunciare alla lotta ci espone al fallimento, ma non evolvere dalla lotta alla danza renderebbe sterile la nostra esistenza. Ma non si può danzare da soli:«bisogna imparare a stare insieme con più dolcezza e attenzione».