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Domenica, 19 Settembre 2010 18:53

Sergio Givone: Contingenza e colpa: il gioco ( arginabile ) del caso

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Tra le presenze fisse e, in un certo senso, irrinunciabili del Festival filosofia di Modena v’è quella di Sergio Givone. Ordinario di Estetica all’Università di Firenze, Givone sarà protagonista alla X edizione della kermesse con ben due appuntamenti: la lettura dei classici, nello specifico, I saggi di teodicea di Leibniz, che terrà sabato 18 settembre, ore 15, nella Biblioteca Loria di Carpi e la lectio magistralis Contingenza e colpa,in programma per domenica 19 settembre, a partire dalle 16.30, nel cortile d’onore del Palazzo Ducale di Sassuolo. Per l’occasione lo abbiamo incontrato.

Prof. Givone, quale ruolo gioca la sorte nelle nostre esistenze e come interpretare il binomio contingenza-colpa? «Dire colpa e contingenza è come dire libertà e responsabilità. Questo binomio originario può subire uno slittamento di significato se lo si colloca su un piano oggettivo, dei fatti, delle azioni: non più il piano dell’io e della coscienza, ma il piano ontologico. Noi viviamo in un mondo che, per usare le parole di Kant, parrebbe mosso dal grande meccanismo universale, ovvero da una logica necessitante che governa le nostre azioni. Del resto, la psicologia e la sociologia contemporanee parrebbero convergere su questa veduta: chi di noi può pretendere di essere a capo dei movimenti che guidano la storia? Ora, la contingenza è il tentativo di pensare altrimenti che in termini di causa ed effetto ciò che accade. Che ci accade. Si pensi alla distinzione di Leibniz tra le verità di ragione, che non possono essere diversamente da come sono – il teorema di Pitagora, ad esempio – e le verità di fatto, ovvero le azioni degli uomini. Azioni che possono avvenire o meno. Anche questa conversazione tra me e lei rientra in questa seconda categoria».

Questa sua riflessione pone – di fatto – il problema della libertà nella contingenza. «Proprio così. Leibniz sostiene che Dio sa – in virtù della sua onnipotenza – ciò che accadrà, pur non essendo questo o quell’evento predeterminato. E non lo è perché noi possiamo liberamente decidere. Qui si pone il problema del paradosso della libertà: viviamo in un mondo dove tutto congiura a toglierci quella libertà che è nostra e della quale siamo responsabili».

Come interpretare, allora, la formula homo faber fortunae suae? «Questo è il punto di snodo. Oggi viviamo in un’epoca in cui la fortuna non è più il risultato di un’azione virtuosa, non è più destino inteso come ciò che è prodotto dall’uomo. Dalla visione ottimista dell’umanesimo siamo passati all’estremo opposto del postmoderno: si vince alla lotteria? È il caso. Si subisce un incedente in autostrada? Di nuovo, si dice, è il caso. Capita. Del resto, spesso, ci si chiede: chi governa la tecnica? Gli scienziati? i cittadini? i politici? È come se questi processi avvenissero motu proprio. Il destino non è cosa mia, eppure v’è ancora spazio per la libertà. E la colpa è la responsabilità nei confronti di qualcosa che non volevo – l’incidente –, eppure, è accaduto. La colpa è, precisamente, una responsabilità attinta nel cuore stesso della realtà. Come diceva bene Dostoevskij:” tutti siamo responsabili di tutto nei confronti di tutti”. Di qui, lo sforzo di dover riconoscere che siamo responsabili, anche laddove sembra esserci il caso. La tecnica è cosa nostra, la guerra è cosa nostra, la salute del pianeta è cosa nostra».

Se le cose stanno in questi termini, l’uomo sarebbe chiamato, per usare l’espressione di Lévinas, a farsi carico, paradossalmente, persino, della colpa del persecutore: dalla teodicea all’antropodicea. «La teodicea, ossia la domanda sulla giustificazione di Dio rispetto a ciò che accade nel mondo, al male che divora il mondo,trova la sua unica risposta, appunto, nella libertà. Dio sceglie, sin dall’origine, la libertà e non torna indietro. Dio sceglie di lasciar essere libero l’uomo e, con esso, il mondo stesso. Credo che quando Leibniz parlava del nostro come del migliore dei mondi possibili intendesse chiedersi se non ce ne potesse essere uno con meno male e più bene, o come abbiamo tentato di spiegare, volesse lasciar intendere che il miglior mondo possibile è quel mondo che, nella sua radice, è libero».

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