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Lunedì, 17 Giugno 2019 23:55

Generare idee

Francesca Rigotti, filosofa Francesca Rigotti, filosofa

Il titolo non inganni. Qui non si danno né istruzioni per generare nuove idee né consigli per produrre innovazione. Non si offre nemmeno la ricetta della creatività, e questo non per egoismo o cattiveria, ma semplicemente perché tale ricetta, se esiste, non la conosce nessuno. Ogni tanto una beautiful mind propone qualche espediente per promuoverla, e più avanti ne incontreremo uno e ne diremo qualcosa.

Qui affronto la tematica del generare idee in base alla mia sensibilità, alle mie conoscenze, ai miei percorsi e ai miei interessi, cercando di universalizzarli e estenderli ad altri esseri pensanti in base alla nostra comune condizione umana; del resto questo mi sembra essere l'unico atteggiamento serio, onesto e modesto del filosofo/a chiamato a confrontarsi con un tema dopo aver accettato la responsabilità di farlo. Niente ricette dunque, ma un percorso che vi propongo, spero, con serietà, onestà e anche modestia. Modesto, modestia: attenzione a questi termini perché fanno parte di una famiglia di parole sulle quali ci soffermeremo più avanti, ma che vi butto da subito, come sassolini da raccogliere per seguire la strada.

Ecco le tappe del percorso, i sassolini, cinque. Partirò 1. dal significato di generare, mettere al mondo il nuovo, nella forma di figli e di idee. Noterò che in questo magma analogico è stata introdotta da sempre, 2., una discriminante di gender tra la funzione del femminile: generare e curare figli, e quella del maschile: generare e condurre stirpi popoli e nazioni da una parte, e dall'altra generare e promuovere idee, opere dell'ingegno, manufatti. Un'ulteriore ripartizione segue le età della vita e dice che 3. la generazione di idee è, come quella di figli, riservata ai giovani. Nella generale esaltazione del nuovo, giovane e recente (la cosiddetta età neotenica) si è imposto inoltre, ecco il punto 4., il principio di innovazione che risponde ai principi della novità e della moda, se innovare è modificare introducendo criteri di novità che sollecitano la curiosità. Concluderò, 5., con un cenno a criteri ed espedienti proposti per generare idee nuove, e con un vecchio criterio genesico.

Il primo dei cinque sassolini dice che generare, dal latino generare, dal greco genos derivato dal verbo gignomai vuol dire produrre da se stesso. Generare, propagare la razza, produrre. Si avverte da subito una forte analogia tra il generare figli e il generare idee, basata proprio sul principio generativo di produrre qualcosa da se stessi, dal proprio corpo o dalla propria mente. E che cosa si genera? Il nuovo, il neos, il giovane, il recente. Che questo sia il neonato o l'idea innovativa, si tratta in ogni caso di un parto, fisico o mentale. Non di una nascita, se separiamo l'atto del venire al mondo da quello di far venire al mondo. Generare è l'atto di chi dà origine, di chi fa sorgere. Si tratta di un'analogia molto potente e che ha permeato e permea il nostro modo di pensare in diverse prospettive.

Lo possiamo vedere prendendo in mano il secondo sassolino, quello dedicato alla discriminazione di gender. Che cosa dice questa in merito alla generazione nelle sue tre accezioni di figli, di stirpi e di idee? Che la prima spetta alle donne e le altre agli uomini. Lo sancisce, nella storia, il discorso che Platone mette in bocca a Diotima nel celebre dialogo Il Simposio. Nel Teeteto è invece presente l'analogia tra figli e idee, quando Socrate spiega che lui aiuta gli uomini (àndras) a partorire le idee dalla mente come sua madre Fenarete, che faceva la levatrice, aiutava le donne (gynaìkas) a partorire i bambini dal corpo. Le donne godono infatti della creatività fisica, possono generare figli; gli uomini della creatività spirituale, possono generare idee. Anzi, e qui interviene il Simposio, gli uomini, e soltanto loro, godono della doppia creatività. Il primo tipo di generazione vale, al maschile, in relazione alla riproduzione della specie, con la quale le città fioriscono e la stirpe umana si prolunga senza fine nel tempo. Generare la specie, non i singoli (che è invece compito delle donne), afferma Platone per bocca di Socrate, è una delle due maniere per gli uomini di essere immortali; l’altra è quella di generare secondo l’anima opere immortali in poesia, in musica, in politica. In questo modo gli uomini, esercitando la fecondità secondo la carne, lasciano dietro di sé figli materiali destinati a perpetuare la specie immortale, ed esercitando la fecondità secondo lo spirito, superiore a quella carnale, danno luogo alle immortali opere dell’ingegno. Idea destinata ad avere grande successo e a durare fino ad oggi, tanto che c’è chi sostiene che le donne non sono creative a livello artistico, letterario, musicale, ecc. perché la tensione creatrice nel loro sesso si realizza grazie alla capacità, esercitata o anche soltanto posseduta come dotazione fisica, di mettere al mondo figli.

La discriminazione genesica, e siamo al terzo sassolino, non riguarda soltanto il sesso ma anche l'età. L'analogia su cui si basa è sempre la stessa: generare le idee è come generare i figli (dal punto di vista maschile, ça va sans dire). Si tratta dunque di una faccenda di giovani, soprattutto ai nostri giorni. Su questo punto gli antichi erano più cauti, e qualche credito alla sapienza e alla creatività degli anziani lo concedevano. Ma questo accadeva nei tempi d'antan. La nostra non è un’epoca per vecchi, No old men country: viviamo anzi in un’orgia di giovanilismo. È nella giovinezza che zampilla la fonte generativa dell'immaginazione creativa, che il vulcano della mente emette fuochi d'artificio, dice la leggenda basata sull'analogia tra creatività e procreatività. Il giovane maschio genera l'idea nuova, spodestando da tale attività oltre alla donna, giovane e vecchia, anche l'uomo in età. E lo fanno anche le nazioni giovani, non nel senso mussoliniano ma in quello culturale delle nazioni che sarebbero da poco giunte alla ribalta della storia. Dunque, oggi, gli Stati Uniti, l'unico paese oggi, a detta di Pogue Harrison (L'era della giovinezza, 2016), in grado di generare idee nuove e accattivanti. Anzi, gli USA sono il luogo della rivoluzione neotenica – un concetto biologico che designa la ritenzione nell'adulto di fattezze infantili – applicato alle società umane secondo il quale negli USA e soltanto lì le antiche eredità assumono nuove forme coniugando le forze della saggezza con quelle del genio. È il fenomeno che Pogue Harrison definisce americanizzazione, in virtù del quale si assiste al trionfo planetario e al destino universale di quella cultura, invero del modo di essere americano. Perché nessuna potenza sulla terra si avvicina nemmeno alla lontana alla giovanile immaginazione, alla liberazione di energie giovanili, ai suoi colori, forme, prodotti e narrazioni, insomma tutto ciò che di più neotenico, giovanile, infantile c'è nella cultura americana (p.147). La generazione di idee è prodotta oggi dal pensiero americano, al punto che, scrive Pogue Harrison, «our juvenescent age is not just another stage of cultural development...but represent a momentous, yet chaotic event in the evolution of humanity itself» (148). E con questo la vecchia Europa e la vecchissima Asia sono sistemate.

Nella generale esaltazione del nuovo, giovane e recente si è imposto anche ai nostri giorni bizzarri il principio dell'innovazione. Il quarto sassolino. Innovazione. Concetto un po' nebuloso quanto onnipresente, sia nel linguaggio comune sia in quello economico, dove sta a indicare la trasformazione di nuove idee in prodotti di consumo, prestazioni di servizio, modalità di presentazione etc. L'innovazione non è l'invenzione, la quale presuppone una scoperta, un prodotto dell'immaginazione che prima non c'era, anche se spesso tali termini vengono confusi o sovrapposti. L'innovazione si riferisce al cambiamento di un prodotto, un’idea, un campo già esistente. Il telefono fu un'invenzione, forse lo fu anche il telefono cellulare: lo smartphone è un'innovazione. Da un punto di vista filosofico mi sembra che si possa dire, seguendo Fabio Merlini, L'estetica triste, Torino, Bollati Boringhieri, 2019), che l'innovazione risponda a due principi: al principio di novità e al principio della moda: dunque in-novare e modi-ficare. Non c'è gloria nel conservare il mondo, soltanto nel modificarlo. Innovate, innovate, è l'imperativo dell'economia diretto ai produttori; consumate, consumate, quello per gli acquirenti. Ora, il nuovo sicuramente attrae. Non perché sia migliore del vecchio: talvolta lo è, talvolta no. Eppure, soltanto per il fatto di non esserci stato prima, il nuovo solleva curiosità, che non a caso in una lingua precisa come il tedesco si chiama Neugier. Neu-gier, avidità del nuovo. La lingua tedesca mette l'accento sulla novità, la quale suscita il sentimento della curiosità, mentre le lingue neolatine, ispirate dal latino, lo mettono sulla cura. Curarsi di una cosa, curarsene con sollecitudine, questa è la curiosità, e anche se il nuovo non vi compare esplicitamente, si può ben immaginare che si voglia prendersi cura del nuovo, soprattutto se questo è un nuovo bimbo, bisognoso proprio di quella cura che si desidera porgergli.

Il nuovo tiene desta l'attenzione, scriveva Kant nell'Antropologia dal punto di vista pragmatico (1798) ricordata da Merlini, la scuote, suscitando stupore e meraviglia con l'arrivo dell'inatteso [§76]. Chi più di tutti si stupisce e si incuriosisce per il nuovo è – scrive Kant – il neuling, il novellino potremmo tradurre, per mantenere l'accento sul nuovo; ed è la infatti facoltà di continuare a stupirsi e meravigliarsi che Kant raccomanda di coltivare, per non cadere nell'atonia o nella monotonia, stato in cui le sensazioni sono infiacchite dalla quotidianità e dall'abitudinarietà: abitudine, abito, habitus, participio passato del verbo latino habeo, habere, ciò che già si ha ed è scontato. Habere, habitus, in greco echein. Da cui hexis, l'ottava delle categorie aristoteliche che dirigono tutte le riflessioni sul mondo. Habitus, l'abito, è il nostro modo di essere, la figura che ci portiamo dietro continuamente, il nostro vestito, quello che siamo soliti avere con noi e su di noi. L'abito che è divenuto sempre più soggetto di modifiche e alimenta oggi quell'industria della moda che è tragicamente diventata la seconda più inquinante del pianeta.

Ora, l'antica saggezza stava nello scoprire i modi e i motivi immutabili delle cose e le loro conseguenze. Il contrario, la smoderatezza, porta a errore e a corruzione. La moderazione è stata in larga misura la visione del mondo premoderna; parola d'ordine della modernità è invece il superamento dei confini e l'audacia necessaria a farlo, sorretta dalla tecnica. Nel moderno è entrata la stessa radice di modus (ciò che regola e ordina, modera e misura) ma il significato si è modificato. Il mondo del moderno non è più il contesto dell'immutabile, delle forme eterne e del motore immobile bensì l'ambito del mutevole, del plastico, del modellabile e del modificabile, della rapidità e dell'accelerazione. Nell'epoca del moderno prevalgono, rispetto alle verità eterne e immutabili, i modelli e le mode che si susseguono secondo il principio dell'immediatezza; il continuo processo di modernizzazione e aggiornamento che ci sottopone al «principio-moda [in cui] tutto si prepara a essere sostituito in tempi brevi» (Merlini, p. 13). L'innovazione diventa un imperativo imprescindibile, che è governato e governa la moda, in una dimensione temporale che azzera il passato ma anche il futuro, giacché nulla è più pensato «per la vita»: né il lavoro, né la casa, né i rapporti familiari. La generazione di idee al servizio dell'innovazione e della moda ha annullato il senso delle generazioni che si passavano il testimone dal passato al presente e ha compresso il tutto su un immediato presente.

L'ultimo sassolino è dedicato a criteri e espedienti pensati per generare nuove idee che generino a loro volta nuovi prodotti e servizi. Il visionario di oggi è chi forma e trasforma in maniera ingegnosa, chi escogita e fabbrica, non chi preserva e perpetua. E chi è l'eroe di questo processo, il visionario che ha trasformato l'età digitale, se non Steve Jobs? E dove ha iniziato a immaginare e a lanciare Apple, se non dal garage della casa dei suoi genitori? Ed ecco dunque che le beautiful minds dei nostri tempi si dedicano a costruire garage fittizi che servano da pensatoi, incubatori di idee, al servizio delle capacità del nostro tempo. I garage-pensatoi-incubatori di idee per l'innovazione e la modificazione sono aule superattrezzate situate all'interno di edifici di formazione e dotate di ogni comfort: poltrone, pouff, macchine del caffè, computer e attrezzature di tutti i generi. Non sono laboratori, che potrebbero indurre all'idea che lì si lavora e si fatica. Sono posti in dipartimenti di tecnologie innovative, riservati a giovani menti brillanti delle quali si intende sollecitare la creatività offrendo loro una poltrona.

Forse questa è la strada giusta, corretta, efficace. Forse. Ma c'è anche un altro modo per generare che è legato alla generazione fisica dal peso, dalla fatica e dal travaglio. Forse la generazione dei figli può avvenire in un garage, perché no; se poi il garage è attrezzato con tutte le comodità, ancora meglio. Ma la gestazione, anche se avviene nelle comodità del garage alla moda, è faticosa e pesante, perché in quella condizione, per ora ancora femminile, la donna è gravida, porta un peso, un grave. Nella pesantezza della gravidanza (essere gravide vuol dire essere pesanti, tendere verso terra grazie alla forza di gravità). Il mistero della creatività mi appare risiedere nella gravità e nella pesantezza, nella tremenda gravità, nella grazia della pesantezza. Perché, per citare le parole di un poeta, il sapore più gustoso è quello dei «frutti più pesanti» (R. M. Rilke, Lettere a un giovane Poeta, Milano, Mondadori, 1994, p. 49).

Vorrei raccontare una storia, in conclusione. Non la conoscevo, fino a poche settimane fa, l'ho letta nel romanzo Orfeo, del 2014, dello scrittore nordamericano Richard Powers. È la storia della nascita del Quartetto per la fine del tempo, di Olivier Messiaens. Siamo nel secolo scorso, nei primi anni della seconda guerra mondiale. In un lager per prigionieri di guerra si incontrano quattro musicisti. Grazie alla carta e alle matite fornite da una guardia carceraria, il giovane avvocato tedesco Carl Albert Brüll, Messiaens compone in condizioni impervie un pezzo per clarinetto, violino, violoncello e pianoforte, della durata di 50 minuti circa. Il quartetto venne eseguito su strumenti decrepiti, procurati dallo stesso Brüll, davanti alle guardie e agli altri prigionieri del campo, circa 400 persone, il 15 gennaio 1941. Non era un garage, eppure generava una visione.



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