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Mercoledì, 12 Settembre 2018 02:05

Vegetti Finzi: «La verità è un affare da bambini»

Silvia Vegetti Finzi Silvia Vegetti Finzi

Educazione. I bambini e la verità» è il titolo dell’attesa lectio magistralis che Silvia Vegetti Finzi - nata a Brescia nel 1938, tra le più acute psicologhe cliniche del nostro presente, già docente di Psicologia dinamica all’Università di Pavia, scrittrice e autrice di innumerevoli saggi che hanno formato intere generazioni - terrà domenica, alle 20.30, in piazza Martiri a Carpi. Per l’occasione l’abbiamo incontrata.

Prof. ssa Silvia Vegetti Finzi, in un mondo così disorientato e attraversato da una profonda crisi valoriale e da un progressivo indebolimento della famiglia, che cosa significa educare alla verità?

Sulla verità i bambini sembrano più consapevoli di noi. Forse perché la sincerità nasce da un bisogno profondo. Come sostiene lo psicoanalista Bion: di menzogna si muore. Ma i confini tra il vero e il falso non sono nitidi né tracciati una volta per tutte. Mentre prima dei tre anni i bambini non mentono ma affabulano, confondendo realtà e fantasia, timore e desiderio, dai quattro anni in poi mentono sapendo di mentire anche se, non possedendo ancora una legge morale, si attengono all’educazione ricevuta per obbedienza. È meraviglioso vedere come dai quattro anni in poi si passi dal realismo della percezione (è vero ciò che i sensi trasmettono) al fiorire di una molteplicità di vissuti dove la bugia non svolge solo un’azione negativa ma serve a scoprire che l’adulto non sa tutto di noi, che esiste una interiorità che sfugge al suo controllo. D’altra parte anche gli adulti mentono, spesso giustificandosi che lo fanno per il bene dei figli, anche se le conseguenze possono essere devastanti.



In queste nostre «vite di corsa», per richiamare il grande sociologo Z. Bauman, ciò che sembra venir meno è il tempo necessario per dialogare con i nostri figli, che sovente crescono spaesati, senza l’idea di cosa è giusto fare e cosa no, senza sapere spesso se e cosa dire…

Con l’adolescenza il segreto, il «non dire», diviene una modalità necessaria per abbandonare l’identità costruita dai genitori, per diventare veramente se stessi, a costo di deludere che si ama. Di contro, i compagni che non denuncianoi soprusi del bullo diventano suoi complici. La verità può essere un farmaco e un veleno, come quando un prigioniero tace o mente per non tradire i compagni, per non fare la spia. Non dimentichiamo poi che l’arte si serve della finzione per dire la verità: per cui il cesto di frutta del Caravaggio può essere più vero del vero.

Ne «La bambina senza stella. Le risorse segrete dell’infanzia per superare le difficoltà della vita» (Rizzoli 2015), lei scrive che «non si cresce senza esporsi a qualche ragionevole rischio» come a dire che la verità si impara vivendo…

Nell’epoca delle comunicazioni virtuali la verità è diventata più che mai un valore difficile da affermare e testimoniare. Nella realtà simulata è possibile sostenere tutto e il contrario di tutto. E i ragazzi rischiano di smarrirsi nella «navigazione» più tempestosa che l’umanità ricordi. A questo punto è chiaro che la verità non costituisce un possesso ma un cammino, un percorso da affrontare insieme sapendo che governare, educare e curare sono compiti essenziali che soltanto un regime di verità può consentire e promuovere nella consapevolezza, come scrive Wittgenstein, «che nulla è più difficile che essere sinceri con se stessi».



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