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Domenica, 12 Febbraio 2012 01:00

Ma non andate a scovarla all’esterno: la vera letizia è un «sì» dentro di noi

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Gli antichi chiamavano la felicità eudaimonía, che significa venire a patto con i demoni, avere un buon rapporto col demonico, cioè con tutte quelle forze, tendenze, impulsi che ci trascinano.

Ebbene c’è felicità laddove c’è rapporto positivo, rapporto di riconciliazione con i propri demoni. La felicità secondo gli antichi è qualche cosa che se c’è, è in noi, inutile andare a cercarla altrove. Solo se sapremo ritrovarla in noi stessi, sarà cosa nostra e sarà addirittura qualcosa di più della felicità, perché sarà più profonda, più vera. Sarà gioia. Quella gioia che, guarda caso, i cristiani, memori delle tradizioni degli antichi, pensavano di scoprire anche nei tormenti, anche nel martirio. I martiri muoiono gioiosamente. Noi moderni pensiamo alla felicità in altri termini, come un diritto.

La Costituzione americana parla del diritto degli esseri umani alla felicità. Che cosa vuol dire che la felicità per gli esseri umani è un diritto? Vuol dire che ciascuno è libero di andarsela a cercare dove vuole, come può. Il che è molto giusto, molto vero. Non voglio contestare questo diritto; ma pensare la felicità così, vuol dire pensarla come se stesse altrove, come se non fosse in noi, ma come se noi fossimo in tensione verso qualche cosa che, in realtà, non possediamo mai. Per noi moderni la felicità è proprio questo: tensione, ricerca, ricerca spasmodica, ossessiva, di ciò che ci è dato o ci appare, balena da una lontananza, da una esteriorità, e che crediamo di poter fare nostra ogni volta. E ogni volta proprio quando la facciamo nostra, siamo infelici come non mai.

Diceva Oscar Wilde: «La peggiore infelicità è realizzare i propri desideri». E tutto ciò che cosa ci dice rispetto alla «Leggenda del Grande Inquisitore», rispetto al discorso che i due fratelli hanno fatto sul rapporto tra felicità e sofferenza, rispetto a Dio, rispetto al Cristo? Appunto, che o Dio è un idolo nella forma della felicità, posta fuori di noi, nella forma del Leviatano, nella forma del Grande Inquisitore, nella forma di un potere che garantisce la nostra vita a prezzo della libertà, ma pur sempre un idolo, e allora un idolo che magari ci la dà la felicità, ma una felicità idolatrica, e soprattutto una felicità che toglie la libertà. Agli antipodi sta il Cristo che «passa silenziosamente in mezzo a loro, con un dolce sorriso di pietà infinita», li ama proprio nel senso della caritas che tutto accetta, tutto accoglie, tutto capisce, tutto sopporta.

E dice sì anche alla sofferenza più insopportabile, perché è insopportabile che un bambino muoia o che ci sia la guerra. Ma non dice sì al bambino che muore, giustificando quella morte. Non dice sì alla guerra. Dice sì alla vita che comprende al suo interno la guerra, dice sì come il martire dice sì al suo martirio, dice sì non perché è masochista e gli piace soffrire, ma perché nella vita che gli è data e che gli viene tolta così crudelmente, scopre nel cuore profondo di questa vita, una felicità possibile. Scopre la gioia. Quella gioia che consiste nel dire sì – e dirlo liberamente.

Il segreto è questo: un sì detto liberamente al peso più grande, al dolore più grande. A ciò che non possiamo accettare, che non possiamo tollerare. E tuttavia: sì, un sì che quasi non è dicibile (infatti il Cristo neppure lo dice, ma è sì). È questo il sì che va detto, se si vuole ritrovare il nesso tra libertà e felicità. Il sì che Ivàn non riesce a dire. Il perché lo sa Alëša. Con infinita compassione si rivolge al fratello che «ha l’inferno nel cuore». Ma Ivàn non può fare altro che rifugiarsi nel sarcasmo. Capisce che Alëša si comporta esattamente come il suo Cristo, il Cristo della Leggenda. «Questo è un plagio – gridò Ivàn passando improvvisamente dalla commozione a una specie di entusiasmo –. L’hai rubato dal mio poema!».

Informazioni aggiuntive

  • autore: Sergio Givone
  • giornale: Avvenire

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