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Lunedì, 06 Febbraio 2012 18:27

Quando Jaspers affrontò «Il male radicale in Kant»

«Questo male è banale, non il male». Con queste parole lapidarie, Jaspers si rivolse all'allieva Hanna Arendt, in una lettera del 22 ottobre 1963, reagendo alla famosa risposta che la grande pensatrice diede a G. Scholem a proposito del male «che non è mai ''radicale'', ma soltanto estremo. Solo il bene è profondo e può essere radicale».

Uno scambio epistolare questo, tra Jaspers e Arendt, di estrema importanza poiché costituisce una prova ex post di quanto il filosofo tedesco intuì in un testo complesso quale è «Il male radicale in Kant», edito da Morcelliana a cura di R. C. Ballanti (pp. 77, 8) e composto nel 1935 - anno in cui iniziò a diffondersi il motto di «finis Germaniae».Già escluso dall'amministrazione dell'università nel 1933, Jaspers sarebbe stato esentato dall'insegnamento nel '37 e di lì a poco avrebbe ricevuto il divieto di pubblicare.

In questo clima, in cui l'autore, nella sua «Autobiografia», non esita a rivelare di aver perduto la tutela giuridica nel proprio stato, e poco dopo (novembre 1934) la pubblicazione sulla rivista «Esprit» del saggio di Levinas «Alcune riflessioni sulla filosofia dell'hitlerismo», Jaspers affronta, a sua volta, il problema del male. Lo fa di petto. Con molta serietà. A partire dalle riflessioni di Kant sulla radicalità del male, poiché si assiste ad un'inversione dei moventi, tale per cui l'obbedienza alla legge morale è subordinata al desiderio egoistico della propria felicità, Jaspers mostra come dinanzi alla domanda sul «ti to on» del male, svanisca ogni pretesa definitoria, oggettivante, impossibile da rinchiudere nel paradigma duale di soggetto-oggetto.

Se, come notava Ricoeur, il male è ciò che è già là, è ciò che attiene «al fondo demonico della nostra libertà»; se esso è innato nella natura eppure liberamente assunto, tendenza inestirpabile poiché anteriore ad ogni atto e, tuttavia, nostro atto dato nel tempo, di esso non solo ci è precluso il che cosa, ma persino il donde. Contrariamente al sapere dell'origine tematizzato dalla gnosi e alla dialettica ottimistica che rovescia il male nel bene, per Kant, all'origine, si può pervenire solo per «via negationis». Ma se è vero che «tutto quel che si può dire è dove il fondamento del male non si trova»: non appartiene alla sensibilità né alla ragione che è depositaria della legge morale; per Jaspers, che va oltre Kant, il male nella sua imputabilità sempre inimputabile si fa gorgo e da morale diviene ontologico. Un enigma che, nel rifuggire ad ogni gesto prensile, produce «l'urto con l'origine della nostra libertà».

Si assiste ad una vera e propria «metanoia»: non è più la ragione che con il suo lavorio cerca di cogliere l'origine, ma è l'alterità onnicomprensiva, «das Umgreifende», che la abbraccia e la illumina «nell'oscurità di un donarsi che si sottrae». Urtando con i propri limiti, la libertà si sorprende donata dalla trascendenza, «locus revelationis» non di Dio, bensì dello spazio trascendentale di Dio. Ma se ci è concesso, il limite di Jaspers risiede proprio nel restare prigioniero dell'idealismo che mantiene il soggetto nella sfera trascendentale, a-storica e totalitaria dell'essere. Che non fa i conti, come non si stanca mai di ripetere Bernhard Casper, con il male come negazione dell'altro in quanto altro e, dunque, con la temporalizzazione dell'«io sono» mortale e finito nell'amore.

Nel momento stesso in cui l'«io sono», sempre tentato, si «decide-per-l'altro», il male è la penultima parola, poiché, nonostante il male, si deve perseguire il bene. Non sta in ciò il nucleo che sostanzia le riflessioni di Fackenheim e di Levinas, ispiratori di una filosofia della resistenza al male?

Informazioni aggiuntive

  • autore: Francesca Nodari
  • giornale: Giornale di Brescia

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