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Sabato, 14 Gennaio 2012 15:33

Quei «Giusti» di cui far memoria consapevoli della nostra fragilità

Alla «memoria del bene» era dedicato - l'altra sera, nel teatro dell'Oratorio Pio XI di Castrezzato - il primo incontro di «Fare memoria», la rassegna di conversazioni sulla Shoà curata da Francesca Nodari per l'associazione «Filosofi lungo l'Oglio».

Gabriele Nissim, accolto dalla curatrice e dall'assessore alla Cultura Mariapaola Bergomi, ha subito osservato che il bene compiuto dagli uomini sembra non trovare posto nei libri di storia: «Le piccole azioni di umanità lasciano tracce solo se qualcuno le raccoglie e le trasmette alle generazioni future». È il compito che si è assegnato lo stesso Nissim. Giornalista e scrittore, è presidente del Comitato per la Foresta dei Giusti - Gariwo, che ricerca in tutto il mondo chi ha salvato vite di perseguitati nei genocidi. Il 16 gennaio Gariwo presenterà al Parlamento europeo un appello per l'istituzione di una Giornata internazionale dei Giusti.

Nissim ha dedicato l'ultimo libro a «La bontà insensata» (Mondadori). Quella che ha salvato Moshe Bejski, sfuggito all'Olocausto perché incluso nella lista compilata dall'industriale tedesco Oskar Schindler per sottrarre ebrei al lager di Plaszow. Bejski è stato a lungo presidente della Commissione dei Giusti di Israele: la Giornata dei Giusti si dovrebbe celebrare il 7 marzo, giorno della sua morte avvenuta nel 2007. «In uno dei nostri ultimi colloqui - ha raccontato il relatore - Bejski mi disse: sono convinto che il male non è eliminabile, si ripresenta sempre. Ma si ripresentano anche uomini che hanno il coraggio di affrontarlo e che ogni volta salvano il mondo». Bejski e gli altri due intellettuali del '900 di cui Nissim scrive nel libro, Hannah Arendt e Vasilij Grossman, «non elaborano l'idea di un uomo o di un mondo nuovi: si affidano invece a una speranza realistica, al fatto che l'uomo riappare sempre, anche quando la storia prende una piega del tutto negativa».

L'essere umano, diceva Grossman, «non rinuncia mai volontariamente alla libertà», anche se i totalitarismi lo attraggono, perché si convince che perseguano il bene universale. In realtà, come osservava Hannah Arendt, le dittature provocano un ribaltamento dei valori morali fondamentali: «Per produrre un antidoto al male, le persone devono pensare da sole, interrogare la propria coscienza. Solo guardando dentro di sé una persona può comprendere».

Questa possibilità appartiene a tutti gli uomini. I Giusti che Bejski ricercava erano persone comuni: «Per combattere il male non serve essere eroi, tutti possono compiere piccole azioni. Bejski voleva dare visibilità a questi eroi quotidiani del bene». La molla del buon agire, osserva ancora la Arendt, è spesso il desiderio di non star male con se stessi. A questa motivazione Nissim aggiunge - citando un'altra filosofa contemporanea, Martha Nussbaum - che «chi fa del bene parte dalla consapevolezza della sua stessa fragilità: ciò che accade all'altro potrebbe colpire anche noi». Lo sapevano gli antichi: «Filosofia - dice Socrate nel "Fedone" - significa imparare a morire: allontanarsi cioè da se stessi per entrare in empatia con gli altri».

Esempi di tale sentire empatico non mancano. Nissim ha ricordato Dimitar Peshev, il politico che, dopo un iniziale appoggio ai nazisti, nel 1943 salvò gli ebrei bulgari dalla deportazione. E Jan Karski, il patriota polacco che cercò invano di avvisare il mondo della sorte che attendeva gli ebrei. Uomini che hanno trasformato in atto l'esortazione di Marco Aurelio: «Pensa col pensiero che ingloba tutte le cose».

Informazioni aggiuntive

  • autore: Nicola Rocchi
  • giornale: Giornale di Brescia

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