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Felicità

la copertina la copertina

FELICITÀ E BISOGNO
Che cos’è felicità?
Fine ultimo cui ciascuno di noi tende, la felicità risiede nel carpe diem o nella realizza zione della propria potenza? Richiede l’atarassia stoica o non mira che al godimento? In altri termini: felicità come passione dell’Uno o giusto mezzo nel mondo? Il Bene coincide con l’abbandonarsi ai piaceri della vita o – come sostiene Socrate nel Filebo – con l’esercizio dell’intelligenza?

Ma gli interrogativi si moltiplicano: felicità al maschile o al femminile? Terrena o ul traterrena? Individuale o collettiva? Narcisista o altruista? «Sedentaria» o accogliente? Per pochi istanti o per una vita intera? E l’uomo, dal canto suo, vive rassegnato il dramma della propria fnitudine oppure è un re che si crede mendicante? Egli vive pascalianamente tra l’infnitamente grande e l’infnitamente piccolo con la con sistenza propria di un granello di sabbia convinto, tuttavia, che un giorno si ricongiungerà all’Eterno oppure cerca di vivere quegli attimi di «pura durata» di rilkiana memoria, dando spazio alla sua progettualità, nella consapevolezza che essa può realizzarsi soltanto a partire dalla prossi- mità con gli altri suoi simili e, per di più, già in questa vita?

Non ci insegna, forse, Adorno che: «è per la fe- licità come per la verità: non la si ha, ma ci siè. Fe- licità non è che l’essere circondati, l’essere dentro, come un tempo nel grem bo della madre» (1)? o ci si deve abbandonare alla domanda pessimistica dell’Islandese alla Natura che così suona: «Dimmi quello che nessun flosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?»(2).

E che dire del rapporto tra felicità e tecnica e dell’intimo legame con il bisogno, il desiderio, la verità, la libertà, la temporalità, la scrittura? E ancora quale differenza passa tra soddisfa zione/appagamento e felicità? Si può essere felici da soli e cosa fa di una vita un’esistenza compiuta? Quali sono le strategie per farne buon uso e in cosa consiste la fecondità del bene? È felice chi è fortunato o è for- tunato chi è felice? Ha forse un luogo la felicità o conosce dei confni? È nell’abbraccio degli amanti – nella carezza che li trattiene – o nell’estasi del mistico che si svuota del sé? Corrisponde alla calma piatta del mare o è puro vortice?

Un moltiplicarsi di interrogativi cui, nelle pagine che seguono e che riportano fedelmente il testo delle lezioni magistrali tenute dagli illustri ospiti, ciascun relatore tenta di dare una risposta mostrando insieme la complessità e la problematicità che risiedono nel concetto di felicità. Ci sembra di poter dire che il valore aggiunto di ogni relazione consista proprio nel declinare in maniera plurivoca il paradigma di ciò che già per Aristotele coincideva con il fne ultimo cui tende l’uomo, penetrando la cosa stessa e insieme riuscendo a portare a datità, le nuances della felicità e la peculiarità che di essa scaturisce a partire da una determinata Weltanschauung.

Di qui, se ci è consentito, viene la possibilità di affrontare il tema in oggetto attraverso delle parole chiave: il luogo contrapposto ai non-lieux contemporanei (M. Augé), la dialettica tra individuo e par- ticulare che sottende la questione morale (R. De Monticelli); il binomio felicità-libertà che chiama in causa il grande problema della sofferenza inutile e del male, che richiede a sua volta la paradossale capacità liberante di dire sì alla vita quasi a fl di voce (S. Givone); l’evento della scrittura come resistenza al tempo (D. Demetrio); il come e per quanto si possa essere felici (A. Massarenti); la vita come avventura flosofca alla ricerca del senso perduto (M. Donà). E ancora, l’anteporre l’interrogativo: «chi è colui che è felice» alla domanda classica sul «che cos’è la felicità», individuando l’essere felice in ciò che eviene come dono e l’intenzionalità dell’essere felice nel ringraziare (B. Casper); l’attesa della felicità che non si può ottenere a comando e che giunge a chi non l’ha cercata, ma che richiede al tempo stesso di «sbucciare» la patina narcisistica del nostro io per sedere al banchetto della vita, riconoscendo la natura plurale che ci costituisce (R. Bodei); la fecondità delle virtù – che si acquisisce a partire dalla distinzione tra eutychía (buona sorte) e eudaimonía (demone favorevole) – come strategia che è in grado di condurci alla stabilità del bene (S. Natoli); la beatitudine come affrancamento dal desiderio, distacco dall’io e paupertas spiritu: «nulla avere, nulla volere, nulla sapere»(3) di Meister Eckhart (M. Vannini), il dare anima all’anima contro il precariato, nel senso etimologico di pregare per ottenere, della felicità (M.R. Parsi), l’invecchiare come dimensione che ci rivela la nostra struttura costitutiva di soggetti temporali che individuano nell’eudaimonía la piena rea- lizzazione di sé (A. Fabris).

Forse, tra le righe, emerge un’ulteriore elaborazione circa la felicità. Un’elaborazione che ci sembra di aver colto in presa diretta in questa avventura flo-rivierasca. In quei volti attenti, in quegli occhi che scrutavano il Maestro si toccava quasi con mano l’esplicazione fattuale dell’«io sono» di carne e di sangue, che mostra e testimonia, in certo senso, la propria bisognosità di un nutrimento di ordine superiore, di cui tuttavia avverte sempre più fame. Oggi ci troviamo dinnanzi ad un paradosso tale per cui, proprio a partire dalla domanda su chi è l’uomo, «l’homo consumans»(4) cela la dimensione costitutiva dell’esserci di carne e di sangue che eviene nella storia. Come capì molto bene Levinas nei Carnets de captivité, l’uomo è colui che ha dei besoins5 e che, davanti al dato delle sensazioni, con- stata la propria recettività, ossia il fatto di essere ri- messo all’altro da sé. L’uomo ha bisogno di alimen- tarsi, di coprirsi, di riposarsi. Trova cioè piacere nel saziare dei desideri che gli danno godimento, senza con ciò scadere nella mera accezione edonistica del termine, una possibilità cui «l’io sono» che inizia- qualcosa-con-se-stesso è sempre tentato di cedervi. Godere nel senso di gioire di ciò cui siamo rimessi non signifca tanto abbandonarsi all’elementale, ma ciò che Simon Weil chiamava una «plenitude du sentiment réel»6 , che passa attraverso la sapienza del nostro corpo. La famosa affermazione di Niet- zsche secondo la quale «corpo sono io in tutto e per tutto e null’altro»7 trova in questa esperienza di passività e di allegrezza dell’«io sono» una sua trascrizione nella fatticità ermeneutica del soggetto. Un bicchiere di acqua fresca per placare l’arsura, un pranzo insieme a degli amici, una passeggiata nella natura sono esemplifcazioni di un godere di cui si gioisce e attraverso il quale si realizza lo scollamento dell’io dal sé, attraverso un intervallo in cui l’«io sono» riconosce di avere bisogno di ciò che sta fuori di sé ed è come se avesse la possibilità «de se voir du dehors»(8), per richiamare ancora l’ebreo lituano.

«Se tuttavia – chiarisce Bernhard Casper – intendessimo che in questa soddisfazione solo biologica dei nostri besoins si trovasse già l’intera soddisfazione del nostro tendere alla felicità, in quanto tendere proprio dell’uomo, tendere proprio dell’essere un sé in cui siamo assegnati a noi stessi in quanto noi stessi, allora cadremmo in ciò che a partire da David Hume e a partire, in modo ancora nuovo dai Principia Ethica di G.E. Moore (1873-1958) si chiama fallacia naturalistica. Nel compito che siamo per noi stessi, infatti, ci troviamo rimessi al rapporto con l’altro uomo, in quanto questo altro uomo stesso nel suo essere sé, in un senso molto più radicale dell’essere rimessi all’altro dell’ente che non si trova in nostro potere e a nostra disposizione»(9) . Nell’incontro con l’altro uomo, l’«io sono» sperimenta il bisogno dell’altro in quanto altro e, insieme, il fatto di dover prendere sul serio il tempo. Nell’accadere stesso di questo incontro, che passa inevitabilmente attraverso un intervallo temporale, egli si rende conto di trovarsi dinnanzi a ciò che in nessun modo può ridurre a sé né tematizzare proprio perché si tratta di un altro uomo che, come lui, è a tempo e si è deciso, nella propria fatticità storica, ad iniziarequalcosa-con-se-stesso.

Che cosa eviene nell’incontro tra queste due li- bertà, se non il darsi dell’accadimento dell’incontro, che «si rivela da cima a fondo come dono»? (10) L’«io sono» che si trova in una «passività più passiva di ogni passività antitetica dell’atto»11 – una passività che lo porta a farsi-ostaggio-con-il-proprio-corpo- per-l’altro, a strappare il tozzo di pane dalla propria bocca per darlo all’altro, si trova in una pazienza – nel duplice senso di patire e aver ancora del tempo da far fruttare – che ravvisa, come ancora fa notare Casper, il carattere dell’essere felice nell’incontro con l’altro.

Si può dire che in questa edizione del Festival – osservata con uno sguardo totalmente fenomenologico – si manifesti il chi è dell’«io sono» bisognoso. Per un verso emerge, tanto da essere quasi palpabile, una fame profonda di conoscenza – ovvero un bisogno che va oltre quello strettamente biologico, una necessità che in un’epoca come quella odierna, segnata da un diffuso dis-orientamento valoriale, è divenuta così impellente da potersi considerare alla stregua di un nutrimento, certamente di ordine superiore. Si tratta, ancora una volta, di un qualcosa che non è a nostra disposizione e che ci fa esperire la nostra recettività. Così come non posso darmi in maniera assoluta il cibo di cui mi nutro, l’aria che respiro, l’acqua che mi disseta allo stesso modo, nella disperazione delle possibilità in cui si trova l’uomo contemporaneo, egli pare scontrarsi in un limite particolare, ossia quello di non poter fruire di strumenti per orientarsi nel mondo. Questo ci pare il limite che costituisce, se ci è consentito esprimerci in tal modo, la punta dell’iceberg che scaturisce «dalla rappresentazione globale di una compagine ontoteologica e atemporale del mondo e della storia»(12).

Una situazione questa che, continuando a tenere lo sguardo fsso sul cogitatum del cogito, ha lasciato solo a se stesso quell’ego che si può intendere, nella sua originarietà ultima, soltanto come un «io sono» che ha «bisogno dell’altro o, che è lo stesso, nel- prendere sul serio il tempo»(13) .

Un «io sono» che non può obliare la propria mortalità e fnitezza e, dunque, il fatto di avere un tempo limitato a disposizione14 . Tempo in cui, per uscire dal dis-orientamento, è chiamato a decidersi-per-iniziare-qualcosa-con-se-stesso. Pena il man- care totalmente il proprio se stesso. Per altro verso, è evidente che questo «io sono» che ha bisogno di strumenti per orientarsi nel mondo, non possa dirsi davvero tale, se non nella consapevolezza del bisogno dell’altro in quanto altro. Un accadimento ove è il linguaggio stesso ad accadere nel suo «rea- lissimo essere parlato» (15).

Nel corso delle lezioni magistrali non si tengono affatto monologhi. Il pubblico interagisce, pone domande, offre rifessioni, vuole comunicare. Si sente parte di una comunità che, ascoltando il pensatore e mettendosi sulla sua strada, riscontra nel proprio temporalizzarsi l’evenire di un senso che non può prescindere – a partire dal senso di compimento ultimo dell’esserci in quanto coscienza capovolta dal fatto che sono pensiero incarnato, ovvero che sono soltanto grazie al bisogno dell’altro che mi parla e io ascolto, a cui parlo mentre lui mi ascolta e nel prendere sul serio il tempo che accade. Tempo il cui-in-vista-di-cui fnale è, in ultima istanza, la salvezza. Ma, per stare al nostro argomento, è la felicitas feconda dell’«io sono» bisognoso. Un «io sono» che ringrazia per il dono «nella libertà – dice signifcativamente Casper – di una gratitudine responsiva. Meister Eckhart ha parlato qui “di una gratitudine che ri-genera”: nel vero “sono felice”, il ricevere passivo del dono e l’attivo realizzarsi nella gratitudine coincidono»16 . Questa può, forse, essere la risposta flosofca all’uomo bisognoso del XXI secolo, una risposta che è fondata sulla sapienza del nostro corpo e che accetta la sfda di pensare come pensiero incarnato. Un pensare che rinviene nella bisognosità del Dasein, la possibilità stessa della sua fecondità. Dunque della sua felicità. Non a caso, come ricorda Natoli, riprendendo Emile Benve- niste, «la parola felicità ha la radice fe, da cui deriva una gamma semantica che è interessantissima per comprendere, davvero, che cos’è felicità. Da fe deriva ferax, cioè un ter reno che è fecondo; la parola felix, che i latini usavano per un’annata buona, un’annata ben riuscita; la parola femina in quanto genera; e da una variante di fe – che è il verbo feo, che vuol dire allattare – deriva la parola flius: colui che è allattato. Deriva, infne, la parola festa. Do- vrebbe risultare chiaro che la felicità non è altro che la capacità di essere fecondi, cioè di generare» (17). L’«io sono» bisognoso, dunque, in nome della sua stessa bisognosità, è felice poiché fecondo, o, il che è lo stesso, grato. Vale a dire non è felice perché consuma, ma è felice perché è bisognoso.

 

Informazioni aggiuntive

  • il libro:

    Genere: Saggistica
    Collana: filosofi lungo l'Oglio - 4
    Formato: 120x190x20 mm - pp. 296- illustrato - copertina con alette plastificazione opaca
    Edizione: 2011
    ISBN: 978-88-8486-494-9
    Prezzo: 15,00

Ultima modifica il Mercoledì, 04 Gennaio 2012 22:14
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