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Venerdì, 08 Luglio 2011 17:38

«Nella felicità l’incontro con noi stessi»

Tutte le sedie del castello di Padernello non sono bastate, l’altra sera, ad accogliere il pubblico che ne ha invaso il cortile per ascoltare Remo Bodei, ospite del festival «Filosofi lungo l’Oglio» diretto da Francesca Nodari. Dopo i saluti dei padroni di casa (la Fondazione Nymphe – Castello di Padernello, con il vicepresidente Domenico Pedroni), Bodei ha parlato di «attese di felicità», avvertendo subito che non sono facili da realizzare.

Il professore, a lungo docente alla Normale di Pisa, insegna oggi alla University of California di Los Angeles ed è presidente del comitato scientifico del Festival Filosofia di Modena. Le citazioni con cui ha esordito evocano la fatica inutile degli esseri umani alla rincorsa di un’illusione: «Vanitas vanitatum et omnia vanitas» recitano le parole dell’Ecclesiaste. Schopenhauer sostiene che desideriamo sempre ciò che ci manca, e «per un desiderio appagato ne restano dieci insoddisfatti». L’appagamento stesso è di breve durata: una «elemosina gettata al mendico», secondo il filosofo, che ci fa sempre rivolgere al futuro e ignorare la presente. La quale, aggiunge Bodei, «non si ottiene a comando. È tuttavia possibile disporsi all’attesa, pronti a coglierla quando sarà lei a cercarci». Per farlo è utile anzitutto contenere le paure, ricercare una condizione di serenità: «Andare incontro alla vita accettando quello che capiterà. Sapendo però che serenità e felicità non coincidono: quest’ultima è un picco, una tempesta che dura un attimo ma si lega all’idea di eternità, perché in quei momenti è come se il peso del tempo non esistesse». Nella felicità incontriamo noi stessi, «il nodo che noi siamo»: «rendi il cuore / a se stesso – scrive Derek Walcott in una splendida poesia – allo straniero che ti ha amato / per tutta la vita». Ritrovarsi, chiosa Bodei, «è una festa: la speranza di accogliere la parte che ci ha accompagnato come un’ombra apre alla felicità». Vi si associa la consapevolezza che noi siamo un nodo di relazioni, apparentati con gli altri e la natura: «Sentirsi parte di una grande comunità abbassa le pretese di una felicità narcisistica e aiuta ad avere un io espansivo e solidale». Attitudine ancor più necessaria in un’epoca che ha visto esaurirsi un «ciclo bicentenario di pensiero» che ha legato la felicità alla politica: «Si pensava, sbagliando, che rovesciare un ordine sociale ingiusto producesse felicità. In Occidente ora si vive il senso di un declino, c’è una desertificazione del futuro». Per uscirne serve uno sforzo comune, l’impegno a «cambiare i rapporti su cui si regge la nostra convivenza».

Anche la conoscenza sospinge oltre la paura e il dolore. «Platone cerca di dimostrare che la filosofia è la via d’uscita dalla tragicità del vivere: l’esercizio del pensiero aiuta a liberarsi dalla paura». Secondo una radicata tradizione che discende dal Qohelet biblico, «più aumenta la conoscenza, più cresce il dolore». La filosofia degli antichi procede nella direzione opposta: la sofferenza stessa diventa fonte di sapere. «Per i moderni, la felicità è oltrepassare confini sempre più ignoti. È ricercata in questo mondo e non spostata oltre la morte: sempre con la speranza, però, che ciò che abbiamo non sia tutto». Come scrive Borges in «Storia dell’eternità»: «Negare l’eternità, sopportare il vasto annientamento degli anni carichi di città, di fiumi, di gioie, non è meno incredibile che immaginare la loro completa salvazione».

, 8 luglio 2011

Informazioni aggiuntive

  • autore: Nicolo Rocchi
  • giornale: Giornale di Brescia

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