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Mercoledì, 26 Gennaio 2011 20:00

Giornata della memoria: per non dimenticare...

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Sopravvivere per non dare una vittoria postuma a Hitler. Sembra questo il senso che sottende la giornata della memoria, e che è la trascrizione concreta di quello che Fackenheim chiamò il 614° precetto. Ne parliamo con David Meghnagi, psichiatra, ebraista, conferenziere di fama internazionale.

Prof. Meghnagi, cosa significa oggi fare memoria?
«In una splendida nota scritta nel periodo più buio della storia, Benjamin sottolinea come il lavoro di scavo nella memoria sia finalizzato a restituire vita a chi non ha avuto la parola. Le speranze del passato hanno un diritto sulle generazioni presenti. La redenzione è data se ogni attimo del passato è stato pienamente vissuto. Vista in questa luce la memoria è qualcosa di diverso dalle costruzioni monumentali della cultura, è qualcosa di dinamico che riannoda di continuo il presente al passato aprendo una porta sul futuro.
Fare memoria non è dunque la fissazione del passato, ma un’apertura sul passato che riannoda il dialogo fra le generazioni, offrendo uno spazio simbolico alla elaborazione del lutto di una tragedia che coinvolge l’intero genere umano e di cui gli ebrei hanno pagato il prezzo più alto».

Quali sono gli obiettivi che si prefigge il Master in Didattica della Shoah, attivato presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università Roma Tre, da Lei ideato e diretto?
«Il Master si propone di contribuire ad una formazione di eccellenza. L’obiettivo è di colmare un vuoto che nelle università è diventato ormai insopportabile. Compito delle università è formare dei futuri ricercatori. In sei anni abbiamo diplomato oltre sessanta persone con un percorso di qualità. Il modello formativo è interdisciplinare: storia, sociologia, psicologia, letteratura, antropologia culturale, storia della scienza etc. Non c’è ambito culturale o disciplinare che non sia chiamato a interrogarsi».

Quanto è fondato il dubbio che sotto un certo antisionismo, praticato da una certa parte dell’opinione pubblica, si celi un antisemitismo diffuso?
«Più che un dubbio è una certezza e nel mio ultimo libro, Le sfide di Israele, lo dimostro ampiamente. Non è in discussione il diritto-dovere  alla critica della politica e delle scelte dei governanti israeliani con cui si può essere d’accordo e si può dissentire. Non è questo il problema. La stampa israeliana, che non dimentichiamolo, è la stampa di un paese assediato e in guerra, è in grado di scrivere delle cose scomode che fanno invidia a molti paesi democratici dell’Occidente che vivono in pace. Sono in discussione le forme che una certa critica assume, gli stereotipi di cui si alimenta e con cui procede, per non parlare della demonizzazione. Prima di Auschwitz l’antisemitismo aveva nella cultura europea  una sua presunta “rispettabilità”. Chi era antisemita non se ne vergognava. Lo gridava ai quattro venti e ne faceva un programma. Lo sterminio nazista ha costituito una cesura profonda. Dopo Auschwitz, l’antisemitismo ha perduto la sua presunta “rispettabilità”. Chi è antisemita non lo può più affermare apertamente. Deve declinare il suo odio in altre forme: relativizzando la tragedia della Shoah, dirottando su Israele l’accusa che un tempo era rivolta contro gli ebrei, mettendone in discussione il diritto di esistere, demonizzando i valori da cui è scaturita la rinascita nazionale ebraica, accusando gli ebrei di alimentare il senso di colpa degli europei per alimentare una  “rendita di posizione” contro gli altri popoli. In questa perversa logica lo “stato degli ebrei” diventa “l’ebreo degli stati”, giudicato secondo criteri che non si applicherebbero a nessun altro stato. L’aspetto caricaturale di questa nuova dialettica è che si possa fare dell’antisemitismo in nome dell’”antirazzismo” trasformando  le vittime di ieri  “nei carnefici di oggi”».

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