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Venerdì, 27 Novembre 2020 19:39

«Il carnefice vuole la tua sconfitta, il silenzio: non chiniamo il capo»

Francesca Nodari, direttrice del Festival Francesca Nodari, direttrice del Festival

CHIARI (gnv) La violenza è da combattere insieme, troppe donne sono tenute sotto scacco e condotte fino alla morte da uomini che dicono di amarle. E' stata una conferenza dedicata al racconto quella di mercoledì sera sul canale Aria-Daphne, non un elenco di numeri e statistiche, perché è attraverso la testimonianza che il messaggio arriva dritto come un coltello nella schiena. Non si può non ricordare che lo scorso anno sono stati 91 i casi di femminicidio in Italia, uno ogni tre giorni.

Così, Rete di Daphne e Rete antiviolenza Aria Franciacorta, hanno voluto proporre «Storie di donne», con il patrocinio dei Comuni di Chiari, Palazzolo, Iseo e Orzinuovi. Padrona di casa della serata Michela Metelli che ha presentato le relatrici e tenuto le fila: «Serve dire alle donne che non sono sole, ma è possibile far emergere il loro coraggio e la loro forza fino ad arrivare ad un futuro nuovo».

Francesca Nodari, filosofa e presidente dela Fondazione filosofi lungo l'Ogio

«Spesso la violenza arriva da parte di persone vicine, padri, compagni, partner che dimostrano tutto tranne che amore - queste le parole di Francesca Nodari - Posso essere testimone di una duplice forma di violenza, la violenza psicologica e fisica che mio padre mi ha riservato. E' capitato a molti giovani di vedere commettere nel proprio focolare violenza contro madri, nonne: come me, perché è questo che ho visto, le mie orecchie hanno sentito cose inenarrabili».

Nodari ha raccontato il vissuto con «il padre che non ha mai avuto» nel suo «Storia di Dolores», pseudonimo che ha scelto parlando di sé stessa e che tradisce cosa sarebbe stato il futuro. Il suo è stato un padre padrone, un padre che le ha «regalato» una serie di violenze fisiche e psicologiche: «L'uomo che ha contribuito al mio concepimento non può essere considerato un genitore perché il ruolo del genitore in quel momento non può considerarsi finito, ma solo iniziato. Mio padre biologico mi ha regalato la cifra di un dolore che è il "No", il "tu non vali", il "tu non sai fare, perché parli?". Durante l'udienza di separazione con mamma mi ha detto "Dovresti buttarti sotto il primo tram che trovi". Ero in terza liceo e la mia situazione psicologica era compromessa, non sapevo se potevo reggere gli esami di maturità». La negazione regalata ad una figlia fin da piccola, un "No" iniziale che è continuato nel tempo. «Vedevo il mio volto riflettersi nello specchio della toilette di casa e le sue mani, per me sempre troppo grandi, un ammasso insensato di carne, appoggiate al mio collo man mano che i secondi passavano il mio volto diventava cianotico e la stretta al collo sempre più forte. Se mamma non fosse intervenuta non sarei qui. L'atto di violenza che ho subito è stato il tentato omicidio che mio padre intentò nei miei confronti. Sono tante le cose che si possono dire, i dolori e le sofferenze che ho dovuto affrontare, ma una donna deve cercare di guardare in faccia il male e chi ha procurato questo male. Sono cresciuta con un genitore solo e ringrazio mamma per l'amore straordinario che ha saputo darmi, mi ha partorita due volte. In un dramma simile serve parlare chiaro, avere e trovare il coraggio di dire fino in fondo la verità nei confronti della nostra esistenza e del nostro vissuto, di quello che abbiamo dovuto vivere e subire, la scrittura può essere una forma importante per chi deve elaborare dolore, diventa catartica e terapeutica. Nella scrittura c'è la possibilità della condivisione, insieme dobbiamo battere e combattere la violenza sulle donne, siamo molto lontano dalla parità di genere, viviamo in un territorio che è una micro società dove c'è ancora molto paternalismo, si preferiscono il silenzio e l'omertà al dire le cose. Mi hanno chiesto: "Queste sono cose private, perché esporle?" ti sei risposto da solo, si tratta di una testimonianza». Il rischio è che il dolore ci renda muti, siamo davanti ad un dolore, una violenza, qualcosa di terribilmente ingiusto ma non significa arrendersi, farsi abbattere, chinare il capo e alimentare il circolo della violenza: «Il carnefice vuole la tua sconfitta, la tua vergogna, il tuo silenzio fino al mai più ha concluso sottolineando l'importanza della solidarietà femminile Nodari - Ricordiamoci di quell'insieme e di unirci per evitare che qualcuno possa dire di noi che le donne odiano le donne, facciamo squadra, facciamo gruppo».

Nadia Vali, assessore ai Servizi sociali e Pari opporhatità di Palazzolo

Il Comune di Palazzolo è promotore e capofila della Rete antiviolenza sul territorio, con 43 altri Comuni compone la Rete antiviolenza Aria. «Fino al 2017 il territorio era sguarnito di un servizio come la Rete, ma dal 2018 abbiamo lavorato attivamente: all'inizio è stato molto faticoso, ma siamo partite da un territorio che ha vantato una forte presenza di soggetti che hanno lavorato attivamente come associazioni, consultori, cooperative, sindacati, fondazioni, un centro di aiuto alla vita e istituti scolastici, tutti fondamentali nella rete, ma le scuole sono luoghi di promozione per prevenire violenza contro le donne», ha commentato l'assessore Nadia Valli. La rete è finanziata da Regione per 300mila euro, fondi destinati alle donne vittima di violenza e a chi ha subito violenza assistita. «La rete antiviolenza è come un'opera pubblica, consideriamola un ponte, una strada una scuola, la costruzione della rete è un'opera sulla quale serve investire - ha continuato - Investiamo nel benessere sociale delle comunità non solo sulle vittime di oggi ma nelle future generazioni. Servizi sanitari, Tribunali, sicurezza delle vittime e risorse: la rete antiviolenza è un'opera che ha bisogni di fondi, grazie a tutte le donne che lavorano dietro le quinte e che hanno lavorato per far crescere questa rete che potesse intercettare tutte quelle voci di donne che non ce l'hanno e non sanno raccontare il loro dolore».

Maria Grazia Savardi presidente di Rete di Daphne

Sono molte le donne «intercettate» da Rete di Daphne, circa 70 solo lo scorso anno. Questo gruppo è composto da 50 volontarie, donne che si mettono a disposizione delle altre donne senza apparire e stando dietro le quinte svolgono un lavoro importantissimo. Nella Rete di Daphne lavorano spalla a spalla anche la psicologa Sara Pezzola e l'avvocato Patrizia Ghizzoni che hanno raccontato l'esperienza di una donna che ha vissuto in casa rifugio, vittima di violenza fisica, psicologica e economica, una donna che con il tempo e un grande lavoro su sé stessa è rifiorita e oggi riesce a vedersi nel futuro. «Il collegamento tra legale e psicologo è fondamentale per entrare nella testa delle donne che sono fragili e impaurite e guardano con paura al futuro e l'accoglienza è uno dei momenti più delicati per capire di cosa abbiano bisogno, spesso sono titubanti per loro stesse e i loro figli», ha commentato l'avvocato Ghizzoni. «E' necessaria la forte partecipazione della cittadinanza, ad oggi siamo a Iseo, Palazzolo, Chiari e Orzinuovi ma apriremo altri sportelli, serve sensibilizzare sull'equità di genere, una differenziazione strategica e culturale, siamo considerati il primo mondo e dovremmo averle superate queste differenziazioni ma le vediamo quotidianamente: nel lavoro e nella scuole - ha spiegato Maria Grazia Savardi - Serve generare un cambiamento di prospettiva e modo di essere, la donna spesso è vista come un soggetto debole che deve essere accudito, è un percorso che spesso ha poi portato ad incontrare il carnefice. Non si deve negare il proprio essere donne, nemmeno negare il proprio valore, serve dire la verità. Molte donne difficilmente arrivano a denunciare il carnefice anche quando sono in estremo pericolo, non denunciano pur essendo finite al pronto soccorso, si rifiutano di essere prese in carico e tornano a casa. Il problema è che una decisione del genere non è nella coscienza di molte donne, non si sentono in grado di fare un cambiamento. Serve attuare un'importante attività di sensibilizzazione e prevenzione con i giovani perché si cambi cultura e si arrivi ad una vera parità».



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