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Giovedì, 31 Maggio 2018 05:06

FESTIVAL FILOSOFI LUNGO L’OGLIO EDIZIONE 2018: 5 GIUGNO – 18 LUGLIO Quando la filosofia si fa condivisione

Dopo Le stagioni della vita, Geografia delle Passioni, Vizi e virtù, Destino, Corpo, Felicità, Dignità, Noi e gli altri, Fiducia, Pane quotidiano per tutta l’umanità, Gratuità, Toccare ruoterà attorno alla plurisignificatività del verbo condividere, la tredicesima edizione del Festival Filosofi lungo l’Oglio.

Una scelta che intende prendere sul serio gli snodi nevralgici della nostra temperie culturale: il logorio del simbolico, la tendenza all’individualismo e alla chiusura quasi autistica da parte del soggetto, la complessità del presente nel quale non si fatica ad intravedere l’evolversi di un processo di grande mutamento senza tuttavia poterne anticipare gli esiti ultimi, l’incessante incremento delle disuguaglianze, l’imperversare della tecnica e dell’uso dei mezzi di comunicazione che tradiscono una realtà altra da quella vissuta, l’avanzata della robotica, l’avvento del transumanesimo, un senso diffuso di paura e di insicurezza. Paura che genera incertezza, disorientamento, a volte rassegnazione, inversione di rotta che si manifesta in ciò che Bauman chiama «ritorno al passato».
Problematizzazioni queste che possono trovare una riflessione accurata allorché ci si interroga sulle chances che ci riserva il tema prescelto: si condividono, nel mondo del web 3.0, post su Facebook, mentre si fatica a trovare l’applicazione pratica e autentica quando ci si trova dinnanzi all’altro in carne ed ossa: il prossimo, lo xénos, il diverso. Condividere chiama in causa la nozione di prossimità, di comunità, di
‘commūnis’ inteso propriamente come ‘chi ha in comune dei mūnia (doni)’ cui si contrappone il senso arcaico di immūnis come ‘ingrato’, ovvero ‘chi non rende il beneficio ricevuto’.

Ciò che torna o dovrebbe tornare al centro è il valore dell’‘avec’, del con della coesistenza (Jean-Luc Nancy). Il per-l’altro ove la condivisione raggiunge la sua acme nel momento in cui non solo mi privo del tozzo di pane per darlo ad Altri, ma rispondo al suo appello dicendo: «Me voici!» (Emmanuel Levinas). Di qui il venire alla luce di nozioni centrali quali quelle di autonomia ed eteronomia, di dignità, responsabilità, fiducia.



Ma condividere, in una società iperindividualista, agonica e antagonista significa altresì tornare a problematizzare l’«homo homini lupus» di Hobbes, la «consolidata abitudine all’ipocrisia, grazie alla quale abbiamo appreso fin dalla culla a nascondere anche a noi stessi tutta l’ampiezza del nostro amore di noi stessi. […] È impossibile – scrive Mandeville ne La favola delle api ovvero, vizi privati, pubblici benefici – che un uomo voglia il bene di un altro più del bene proprio, che non supponga di non potere egli stesso conseguire i suoi desideri»; e ancora: l’«insocievole socievolezza» di Kant, il concetto di contratto sociale inteso come accordo fra gli individui che sta all’origine della società organizzata e dello Stato con la distinzione fondamentale da parte dei contrattualisti tra il patto di unione che dà origine alla vita associata e il patto di soggezione che dà origine alla sovranità. Condividere implica, inoltre, l’esercizio delle virtù, la pratica di una vita buona, il saper ascoltare e il saper prendere sul serio l’Altro – sia questi la vedova, l’orfano, lo straniero. Del resto, cogliere il linguaggio nel suo «realissimo essere parlato» (Franz Rosenzweig) nell’era in cui vigono, se va bene, le «relazioni di superficie» (Marc Augé), comporta altresì problematizzare il dialogo degli uni con gli altri a più livelli a partire dall’accadimento dell’incontro di due «io sono» di carne e di sangue: dialogo tra amato e amata, tra maestro e allievo, tra genitori e figli, tra generazioni, tra culture. Di qui le istanze che provengono dal senso profondo che acquisiscono il valore del coabitare, del syn-pathein , dell’ «insieme» di contro a quella tentazione sempre possibile e sempre presente del delirio di onnipotenza dell’uomo contemporaneo: iperconnesso, solo, condannato a consumare e spesso timoroso di cadere nella classe degli esclusi.

Come a ragione sostiene Vincenzo Paglia ci troviamo nel bel mezzo di una società caratterizzata dal crollo del noi, una società dove l’interessamento diviene l’humus ideale per quell’«io sono» di ventre affamato che trova una sua trascrizione sociologica e senza dubbio oggettivante, ma pur sempre realistica, nell’individuo blasé di Simmel, la cui essenza «consiste nell’attutimento della sensibilità rispetto alle differenze fra le cose, non nel senso che queste non siano percepite – come sarebbe il caso per un idiota – ma nel senso che il significato e il valore delle differenze, e con ciò il significato e il valore delle cose stesse, sono avvertiti come irrilevanti. Al blasé tutto appare di un colore uniforme, grigio, opaco, incapace di suscitare preferenze» al punto che ciò che sovente si registra nell’abitare questa difficile contemporaneità «non è soltanto indifferenza ma, più spesso di quanto non siamo disposti ad ammettere, una tacita avversione, una reciproca estraneità, una repulsione che al momento di un contatto ravvicinato, e a prescindere dall’occasione, può capovolgersi immediatamente in odio e in aggressione».

In un tale orizzonte sembrano di estrema attualità le riflessioni che nel 1929 – lo stesso anno in cui in Germania venne pubblicato il Mein Kampf–, Sigmund Freud raccolse nel suo saggio Il disagio della civiltà spingendosi ad affermare che il soggetto «vede nel suo prossimo non soltanto un eventuale soccorritore e oggetto sessuale, ma anche un oggetto su cui può magari sfogare la propria aggressività, sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo, abusarne sessualmente senza il suo consenso, sostituirsi a lui nel possesso dei suoi beni, umiliarlo, farlo soffrire, torturarlo e ucciderlo. Homo homini lupus: chi ha il coraggio di contestare questa affermazione dopo tutte le esperienze della vita e della storia? Questa crudele aggressività è di regola in attesa di una provocazione, oppure si mette al servizio di qualche altro scopo, che si sarebbe potuto raggiungere anche con mezzi meno brutali. In circostanze che le sono propizie […] essa si manifesta anche spontaneamente e rivela nell’uomo una bestia selvaggia, alla quale è estraneo il rispetto per la propria specie».
Da questi brevi cenni, si può ben comprendere la vastità del tema che verrà declinato nel corso dell’edizione 2018 del Festival. Sullo sfondo resta la sfida dell’«utopia dell’educazione», secondo la felice intuizione di Augé, e una convinzione: il fatto che questa manifestazione trovi il suo punto di forza nell’alimentare un bisogno di ordine superiore: la richiesta di strumenti interpretativi attraverso i quali scandagliare le urgenze del nostro tempo a partire da una resistenza culturale che tra attori e spettatori, tra relatori e pubblico diventa reciproca e, dunque, con-divisa.



I RELATORI DELL’EDIZIONE 2018:
Enzo Bianchi, Silvia Vegetti Finzi, Marc Augé, Massimo Cacciari, Umberto Galimberti, Remo Bodei, Nando Dalla Chiesa, Maria Rita Parsi, Donatella di Cesare, Luigi Zoja, Maria Tilde Bettetini, Vanni Codeluppi, Leopoldo Sandonà, Mons. Vincenzo Paglia, Gabriella Turnaturi, Marco Ermentini, Massimo Donà, Elena Pulcini, Francesca Nodari, Anna Foa, Francesco Miano, Marco Vannini, Giuseppina De Simone, Francesca Rigotti, Stefano Zamagni, Gabriele Archetti, Giancarlo Pallavicini, Gian Antonio Girelli, Annunziato Vardé, Umberto Curi, Luigi Croce.

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