Di qui i tentativi di metterne in scena le gesta e di controllarne l’espressione attraverso i rituali d’inversione o, per quanto concerne la tradizione monarchica europea, consentendo al buffone del re di valicare le soglie dell’interdetto con il risultato di consolidare l’auctoritas di chi detiene quel potere. Al contrario, non molto tempo fa, in alcuni stati africani si poteva anche assistere alla mineralizzazione della persona del sovrano costretto all’immobilità nello stesso modo in cui il mikado giapponese era tenuto ad osservare lunghe ore di esposizione in religioso silenzio.
Ancora oggi, ci ricorda l’autore, in Africa, si usa «portare la parola» del capo del villaggio ricorrendo ad un «intermediario» proprio come accade per l’etnologo che si avvale di un informatore per stabilire una comunicazione e, ironia della sorte, è ritenuto, per questo, una figura di potere. Ma ciò che ci pare particolarmente incisivo in questa analisi è il fatto stesso di individuare nella dignità il corollario della dualità umana: misconoscere l’intersecarsi della dimensione individuale e della dimensione sociale significherebbe per il soggetto cadere in malafede, non dar corso alla progettualità del proprio per sé. Come dire: implicherebbe una pietrificazione dell’individuo, il quale, suo malgrado, condannato a essere libero, cadrebbe in una dimensione inautentica, in un’automistificazione il cui scopo è di evitare l’assunzione inquietante del proprio vero essere.
Al contrario, l’esistenza precede l’essenza ovvero «l’uomo non è altro che ciò che si fa». Che cos’è il potere se non lo scacco della trascendenza del soggetto, se non il mancato riconoscimento dell’umanità generica in ogni uomo? E a che cosa ha portato l’identità individuale, incapace di costruirsi in relazione con altri, se non all’asservimento, alla subordinazione, allo sfruttamento, all’ingiustizia? Richiamando mirabilmente Razza e Storia di Lévi-Strauss, Augé fa notare come la forza dell’Europa, a partire dal Rinascimento, fosse consistita nella sua capacità di fare tesoro e di avvalersi degli apporti delle varie culture del tempo. Al contrario, oggi, si può dire che il vecchio continente ha mancato il suo obiettivo proprio perché non ha saputo riconoscere l’eguale dignità di ogni essere umano ovvero ha perso di vista quella sacralità che scaturisce dalla dualità umana: «la volontà di conglobare senza scambiare, di sfruttare e di colonizzare, in breve di esercitare il potere, ha minato la volontà di scoprire e di conoscere».
In realtà, allo stesso modo in cui nel suo ultimo capolavoro: Futuro, Augé individua nell’«utopia dell’educazione» la chance per l’avvenire, così egli rinviene nella conoscenza – che è sinonimo di creazione, di inizio, di rottura rispetto ad un ritorno del bovarismo inteso come «fuga nell’immaginario per sfuggire all’insoddisfazione» – il riscatto della dignità in quanto riconoscimento del paradosso umano. Al punto da scorgere nell’idea dell’infinito indagata da Descartes nella quinta meditazione la prova dell’esistenza dell’uomo o, se se si vuole, dell’umanità generica che abita ogni essere umano. Umanità generica che rinvia ad un superamento di sé, ad un’appartenenza superiore senza la cui consapevolezza sarebbe impossibile parlare di dignità. Francesca Nodari