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Mercoledì, 12 Maggio 2010 05:56

Dialogo sulla speranza - Salvatore Natoli e Luciano Monari

Scritto da
Francesca Nodari e Salvatore Natoli Francesca Nodari e Salvatore Natoli

I testi che seguono sono il frutto di un affollatissimo incontro organizzato dalla Cooperativa Cattolico–democratica di Cultura in collaborazione con i Padri della Pace il 4 marzo nell’ambito del denso programma di manifestazioni culturali svoltesi nel corso dell’anno. Quale forma se non quella peculiarmente filosofica del dialogo scegliere per parlare della speranza? I protagonisti sono d’eccezione: da un lato, Mons. Luciano Monari, Vescovo di Brescia e noto biblista, dall’altro, Salvatore Natoli, docente di filosofia teoretica all’Università Bicocca di Milano e conosciuto come il filosofo dell’etica del finito. Due mondi che si incontrano, un credente e un non credente, un teologo e un filosofo, ma soprattutto due uomini che, pur muovendo da orizzonti diversi, sanno confrontarsi e misurarsi secondo lo stile di chi sa rispettare gli orientamenti reciproci in un clima di profonda stima e di vero ascolto.

Che cos’è dunque la speranza? Come si articola? Quali sono le sue movenze? È, davvero, una virtù debole o, come si usa ripetere in alcune circostanze della propria vita, è l’unica cosa che resta quando tutto sembra ormai perduto? E ancora, è l’ultima dea che ci inganna perché ci illude o la possibilità estrema della salvezza? È l’ultimo dei mali che rimase sul fondo del vaso di Pandora o è un modo di dire sì alla vita, a questa esistenza che, per dirla con Monari, proprio perché accetto, nonostante il carico di dolori, sofferenze e avversità, continuo ad amare? È quella «grande speranza» che abbraccio – come fa notare Natoli – perché comunque andrà a finire, andrà bene o è l’incerta letizia di spinoziana memoria che incontro nella comunità umana e che si esaurisce nei suoi limiti spazio–temporali? Sono questi, soltanto, alcuni degli interrogativi che emergono dalle argomentazioni dei due relatori. Argomentazioni aperte che cercano e trovano, pur nell’inevitabile distanza dei due orizzonti di riferimento – la fede per Monari, la finitudine per Natoli – , un doppio punto di incontro: l’attaccamento alla vita che è dono e che si deve volere finanche nelle prove più alte e il primato dell’altro. Serve un atto forte di speranza nel mettere al mondo un figlio così come nella formazione del proprio carattere. Serve speranza nel saper reggere al dolore, far fronte alle difficoltà quotidiane e attualizzare la potenza che noi stessi siamo. E se, come osserva Natoli, la radice stessa di questo termine, elp, entra nella parola voluptas tradendo «la voglia che la vita ha di se stessa» che simanifesta persino quando il tramonto della fine si sta calando su di essa, non si può certo ridurre la speranza a mera forza biologica e trascurare di mettere in luce ciò che ne costituisce la cifra: la fede. Ma quale fede? E in che senso si può parlare di fede come sostanza della speranza? La fede – lo si evince da entrambi i contributi – è, innanzi tutto fiducia e perseveranza in questa fiducia. E di nuovo, fiducia in chi? Monari, riprendendo un aforisma di Gabriel Marcel: «Spero in te per noi» fa notare, in maniera cristallina, quanto sia importante, in questa espressione, l’uso dei pronomi personali: io–tu, e quanto sia determinante volgere quel tu, prima in vita e poi in Dio. Apparentemente si tratterebbe della mera iterazione di una stessa proposizione, in realtà ciò che ne scaturisce è il passaggio dal consorzio umano alla Trascendenza. Come dire: il Tu della «grande speranza» cui Natoli, rinvenendo nell’etica la necessità ontologica di coesistere con gli altri, contrappone la fede/fiducia nel tu che sostanzia il legame sociale, nell’«accanto» cui posso gridare il mio aiuto e sul cui braccio trovo sostegno nel corso di questo mio stare al mondo. Da un lato, una fiducia che passando attraverso gli altri arriva a Dio, dall’altro uno sperare con gli altri nell’agone della vita, per la vita di quaggiù. Non si può certo negare il diverso articolarsi del contenuto finale del «Che cosa posso sperare?», ma, allo stesso modo ciò che emerge con evidenza dalle osservazioni di Monari e di Natoli, è il dato imprescindibile dell’Altro sul quale posso contare e dal quale non posso prescindere, pena la caduta in un egoismo tronfio e sterile, in preda ad un illusorio delirio di onnipotenza. Pena lo scivolamento in una solitudine mortifera e mortale dove si rischia non tanto un abbandono, ma l’abbandono. Dunque, la fine. Di qui, il ripetuto richiamo ai testi paolini, alla «carità che tutto crede e tutto spera», al fecondo apporto delle relazioni umane, svincolate dalle logiche utilitaristiche del «do ut des» o dai calcoli di potere. Ma per sperare con l’altro e per–l’altro – e non al modo del mit–sein heideggeriano – occorre perseveranza, virtù passata di moda, ma della cui necessità, mai come oggi, se ne percepisce il bisogno. Virtù richiamata dal filosofo che dice sì alla vita perché ama la terra, ma evocata anche dal teologo che – pur avendo compiuto il salto della fede e individuato nel Tu la presenza dell’Altissimo che porta redenzione e salvezza – non esita a sostare sul penultimo, richiamando credenti e non a quella autenticità di vita cui lo stesso Natoli fa riferimento. Visioni incrociate, dunque, su uno stesso tema, ma con molti punti di convergenza. Come per l’eterno interrogativo sul male – anche se per il cristiano v’è la morte in croce e la resurrezione redentiva del Cristo e per il laico l’inesorabile ciclicità di tuxe – il libera nos a malo sembra diventare preghiera di una speranza condivisa. All’uomo limitato e finito, forte di questa o quell’altra fiducia, non resta che avere coscienza che da solo può fare ben poco e ripetere questa massima dei Pirqè Avot: «Se non sono io per me, chi è per me? E quand’anche io fossi per me, che cosa sono io? E se non ora, quando?».
Francesca Nodari

Salvatore Natoli - La speranza*

La speranza. La speranza dei credenti, la speranza dei non credenti. Muovere da questa dicotomia, sarebbe già un modo improprio di parlare del nostro tema perché si tratterebbe di capire, di sapere davvero cosa vuol dire «non credente». In che cosa, in chi, qual è la struttura mentale del credere? Dichiararsi non credente è molto problematico. Nella nostra vita noi viviamo più per atti di fede che per dimostrazioni. Perché se dovessimo dimostrare in ogni momento della nostro esistere il preliminare dell’azione, non agiremmo mai. L’esistenza è impostata sin dall’inizio più su rami fiduciari che su dimostrazioni. Questa non è la fede teologica, ma comunque pur sempre un affidarsi. Il bambino ai genitori non chiede una dimostrazione, si affida. Ed è a partire da questo affidamento che comincia a vivere, che impara a vivere. La dimostrazione interseca la credenza, e quindi le due dimensioni, guardate da questo punto di vista, forse sono meno eterogenee, meno antagoniste di quanto non si pensi. Certo, c’è uno specifico nella fede – e su questo torneremo – che è la fede, o l’atto di fiducia, verso un preciso «tu». Il che è diverso dal reciproco affidarsi tra gli uomini. Allora, se una differenza si disegna, questa è data non tanto dal fatto che esistono persone che non credono, ma dal fatto che esistono persone che si affidano ad un preciso «tu». Ecco, questa è la differenza dell’esperienza del credere. E quando si dice «credere», si dice immediatamente «sperare». Ecco, allora, vediamo di descrivere l’esperienza dello sperare, le modalità dello sperare. Nella Enciclica del Papa – Spe salvi – si accenna, per esempio, ai diversi modi di sperare. E poi appare varie volte nel testo, a fronte delle modalità umane di sperare, la cosiddetta «grande speranza». Spesso nelle encicliche si usa questa parola, la «grande speranza». La grande speranza è diversa dal modo abituale che gli uomini hanno di sperare. Bisogna vedere quanto è necessaria, quanto è spontanea, quanto è essenziale per vivere con pienezza la propria vita, perché probabilmente si può pervenire a questa condizione anche senza la «grande speranza». Per capire tutto questo comincerò a descrivere le modalità esperienziali dello sperare. Che cosa sentiamo quando noi speriamo? Tra l’altro, una delle grandi domande kantiane, consisteva, appunto, nel chiedersi: «cosa posso sperare?». La speranza è caratterizzata, fondamentalmente, dall’apertura al futuro. Ed è particolarmente intensa quando il futuro è doloroso. Perché se il futuro è amabile, non si spera, si sta. Anzi, non si vorrebbe mai uscire da una condizione di soddisfazione, di pienezza. Quando si è in una situazione di interazione, non c’è la speranza, non sorge neanche l’idea di speranza. Anzi, casomai, si avverte una sorta di struggimento per il momento che sta passando. Capita molte volte, nelle relazioni affettive, negli incontri, nelle feste, quando si avvicina il momento dell’addio. Lì il dolore è per il congedo, si vorrebbe che quel momento durasse. Quindi la speranza è legata fortemente ad una situazione di aporia (ἀπορία= dubbio), di difficoltà, di indigenza contrariamente a quanto accade nei momenti di pienezza, nei quali v’è una completa adesione al presente. Non c’è motivo di sperare: si è felici. Casomai, c’è appunto il presentimento che questo momento così pieno non possa durare come desidereremmo. Quando si è immersi in tale condizione, si perviene a delle altezze rispetto alle quali non ci si sente all’altezza. Come dice Rilke: «Questo gli amanti lo sanno». Nell’abbraccio, sanno che prima o poi si scioglieranno, ma non vorrebbero che questo accadesse. Vorrebbero stare eternamente in quel presente. In quel istante che non passa. Tra l’altro – ma su questo punto tornerò nella conclusione –, in fondo, la «grande speranza» non consiste, forse, nel desiderio di entrare in un presente che non si consumerà mai? Non è questo l’oggetto della «grande speranza»? E se, nella pienezza, essa sta sullo sfondo, è, al contrario, nei momenti di difficoltà che emerge con tutto il suo vigore. Si immagina un futuro più o meno prossimo in cui si esce da una condizione di sofferenza, di dolore. Per questo si spera. Ma questo modo di esperirla, rinvia ad una speranza che certamente spera, ma non spera nel modo cristiano. Anzi, in alcuni miei testi, ho precisato in modo abbastanza netto che, in senso stretto, i cristiani non sperano, ma credono. E non sperano se, per speranza, si adotta la definizione che dà Spinoza: la speranza è «incerta letizia». Sono in una situazione di difficoltà, come andrà a finire? Certo, può capitare che io esca da questa condizione, mi può andare bene, però non è detto che vada bene, non sono sicuro. Quindi la caratteristica della speranza naturale e umana è caratterizzata da una spinta verso un futuro migliore, ma segnata inesorabilmente dall’incertezza. Non a caso Spinoza – che era netto, sicuro, preciso – sosteneva che la speranza e la paura sono sentimenti di anime deboli, dis–a de - gua te rispetto alla propria condizione perché chi non sa reggere alla condizione in cui versa, chi non è all’altezza del momento in cui si trova, o ha paura o ha speranza. Entrambi i sentimenti, secondo Spinoza, sono segni di grande debolezza. Chi è all’altezza del presente, ed è capace di dominarlo, non teme e non spera. Si disegna un modo di vivere che mostra come la speranza non solo sia qualcosa di cui si può fare a meno, ma, addirittura, qualcosa di negativo. Anche gli antichi prestarono attenzione a questa ambivalenza. La scena originaria in cui la speranza si presenta nel mito è proprio il vaso di Pandora, dono elargito a questa bellissima fanciulla da Zeus che, infuriato dal furto del fuoco divino commesso da Prometeo, decise di punire questi e il genere umano intero. Pandora, nonostante fosse stata avvertita da Zeus di non aprire quel vaso che conteneva tutti i mali del mondo, spinta dalla curiosità, gli disobbedì facendo uscire tutti i mali che dilagano sulla terra. Sul fondo del vaso rimase solo la speranza. L’ultima dea è la Speranza. Cosa intendeva dire Esiodo? Voleva metterci in guardia sul fatto che l’ultima possibilità nel disastro dei mali che dilagano nel mondo è il male peggiore, perché illude. Nei Greci vi era un legame molto stretto tra speranza e illusione. Come dire: la speranza è la falsa libertà e per reggere il presente, di cui non è si all’altezza, ci si consola immaginando, limitandosi a prefigurare situazioni che non esistono qui e ora. Ma verrà presto la delusione. Quindi l’ultima dea è la possibilità estrema di salvezza. L’ultima dea è la radicalizzazione della catastrofe poiché è l’illusione. Ed infatti presso i Greci era consigliato di non sperare, o perlomeno di coltivare brevi speranze, speranze prossime al presente. E questo è molto importante: non fughe in avanti, ma brevi speranze. Perché, dunque, gli uomini sperano, se la speranza è incerta letizia? La speranza è legata all’illusione: cosa li spinge a sperare? Se si guarda all’etimologia della parola speranza, ci si accorge che, in essa, v’è una componente anima - le–bio logica, prima ancora che cognitiva. E questo lo si ricava dalla parola greca elpis, dove secondo alcuni glottologi e filologi, la radice elp entra, attraverso una mutazione fonetica, nella parola voluptas, che vuol dire voglia, desiderio. La speranza scaturisce dalla voglia che la vita ha di se stessa. Voluptas è anche la volontà in senso sessuale, cioè la vita vuole se stessa al di là di ogni dolore. E quindi tende, in quanto vita, a resistere a qualcosa che la colpisce e la contiene, finché può. Vitalmente la vita cerca se stessa. Quindi la speranza nasce dal nostro essere vita, dal nostro radicamento vitale. Questo lo si può riscontrare anche negli animali e negli uomini quando, sul finire dei loro giorni, nonostante il cedimento delle forze e la totale dissoluzione fisica, sembra liberino il proprio corpo, quasi a segnare l’ultima resistenza della vita nei confronti della morte. Il battere delle ali, la vita che non vuole morire, che combatte fino all’estremo. Che poi era la visione della vita che avevano i Greci: l’esistenza è agon, battaglia, perché sin dall’inizio noi siamo posti nella condizione tragica del dolore – che può essere, come diceva Sofocle, sottoscritto poi da Leopardi e Nietzsche – uno stimolante della vita. Perché quando non uccide, può provocare. Ne L’origine del genere umano, la prima delle Operette morali, Leopardi formula questo paradosso: gli uomini vivevano sulla terra in una situazione di inedia, poiché il mondo sembrava fosse divenuto privo di qualsiasi senso ai loro occhi. Quindi gli dei, per rilanciare il loro istinto di vita, diedero loro il dolore, perché li provocasse in una battaglia e ridesse loro amore per la vita. Già da questi brevi cenni si può capire come il mio modo di analizzare il dolore, proprio in termini di tonalità emotiva e di rapporto con esso, sia molto differente da quello che emerge dalla lettura dell’Enciclica di Benedetto XVI. La mia riflessione è incentrata non tanto sul dolore come elemento di purificazione, bensì sul dolore che trova la sua peculiarità nella centrale componente agonica. Nonostante tutto, la vita vuole se stessa e assume, nella rappresentazione della coscienza, la figura della speranza. Ma se la vita vuole se stessa, deve mantenersi aperta al futuro, perché se non si mantenesse aperta al futuro, perirebbe. Quindi i nostri istinti vitali ci lasciano immaginare condizioni di riuscita, e allora si sviluppa nel soggetto l’elemento strenuo. Ma la speranza così intesa non è più fuga in avanti. Questo è molto importante. La speranza non si nutre di immaginazione, ma del e nel combattimento. Perché ci può essere una speranza come fuga in avanti, che è illusione, un’illusione perdente. Nella lotta, il soggetto ha fiducia in se stesso perché se non avesse fiducia in se stesso, non aprirebbe le battaglia contro ciò che lo limita. Quindi l’istinto vitale, nella difficoltà, cerca la soluzione con il combattimento. È l’eroe tragico, che, stretto dal fato, con la sua forza cerca di trovare uno spazio di liberazione per sé. Puntando su di sé, e anche – lo dirò tra poco – sugli altri perché la sola fiducia su di sé diventerebbe delirio di onnipotenza. La fiducia su di sé è necessaria, ma non è sufficiente perché sarebbe mero sforzo illudersi che la propria forza basti. E quindi la fiducia ha una doppia faccia: per un verso, fiducia in sé – perché se non si ha fiducia in sé non si può sperare – per l’altro, fiducia negli altri, come elemento di confidenza, di appoggio di gente che, nella lotta, sta accanto a me. L’atto di fiducia è fiducia in sé, ma è un atto relazionale. Anzi, si può rovesciare la nostra affermazione in un modo più rigoroso, elevandola a modello comportamentale: la fiducia in sé nasce soltanto se si ha fiducia negli altri. Perché se ci si sente soli al mondo, si perisce. E questo sta in un’esclamazione umana e antica: «Aiuto!». Aiuto è la domanda – a qualcuno – di salvezza. Ma è anche il grido che immagina che qualcuno risponderà. Dirà di sì. Verrà. Nella parola «aiuto» v’è un atto di speranza, un’invocazione ad un altro. E chi è l’altro? Chi è l’altro uomo? Diventa inevitabile il riferimento alla pietas tra gli uomini. Nel mio discorso già appare il «tu», come elemento coessenziale alla speranza. Emergono i «tu», non il «Tu». E allora: è proprio necessario che ci sia il «Tu» per sperare? O bastano i «tu» della comunità umana? Dal punto di vista della speranza umana, la condivisione, l’assunzione insieme di piacere e dolore da parte degli uomini, in cui l’uno diventa elemento portante dell’altro – in una sola parola: la pietas – può permettere agli uomini di sperare. E di sperare, in questo caso, non nella fuga in avanti nel sogno o nell’immaginazione, ma nella realtà dove c’è «un accanto» su cui si può poggiare il braccio e trovare sostegno. Ecco perché la speranza, se non è delirio, è già relazione: fiducia in sé, fiducia negli altri. Ma la fiducia in sé nasce fondamentalmente dalla fiducia negli altri. E allora, da questo punto di vista, la speranza è incerta letizia, ma è sensata se è breve. E se nel cammino della vita, che di volta in volta presenta ostacoli e contraccolpi, non c’è mai nulla di definitivo, gli uomini, in ogni momento, possono sapere che insieme ce la possono fare. E nella catena umana, per richiamare l’epilogo de La Ginestra di Leopardi, gli uomini si stringono in alleanza contro la Natura matrigna e nemica. Una caratteristica, questa dell’accompagnarsi reciproco, della misericordia che si ritrova in quasi tutte le forme di vita religiosa: dalla compassione degli indiani a quella presente anche nell’Islam, fino alla carità nel Cristianesimo. La speranza si coltiva fondamentalmente dentro una condizione di fiducia. Ecco perché leggiamo Paolo da un punto di vista profano: la carità tutto crede e tutto spera. È la carità che crede. È la carità che spera ossia è la relazione di pietà reciproca tra gli uomini che permette di sperare, perché la speranza non si reggerebbe senza l’atto di donazione reciproca. Infatti quando la vita è dura e ci lascia nella solitudine, si punta sulla forza propria, ma alla fine si cede. Perché, come dice Aristotele, gli uomini nella loro singolarità non sono sufficienti a se stessi. Noi siamo costituiti in un legame originario che poi è il modo in cui io parlo di etica. L’etica, prima ancora che il dovere, è la necessità ontologica di coesistere con gli altri. Ma perché? Perché non è possibile fare diversamente. Quindi, il fondamento dell’etica è la relazionalità originaria tra gli uomini, e in base a questo si obbligano, perché se non ci fosse questa relazionalità ontologica, qualsiasi obbligo sarebbe una violenza e un arbitrio. Bisogna cominciare a pensare l’etica in termini di ontologia, e non in termini di deontologia. Perché se la si pensa in termini di deontologia, essa è sempre vissuta come un atto di sopraffazione e di violenza, di obbedienza alla volontà altrui. Invece l’etica nasce dal fatto che nessuno è sufficiente a se stesso e che si cresce insieme nel legame umano. Da questo punto di vista, l’obbligazione non è più pensata in termini di sopraffazione, ma come un venirsi reciprocamente incontro. Quindi la speranza cresce nella relazione di carità e di fiducia. La fiducia è un’anticipazione, ma, a differenza della speranza, la fiducia è meno vaga perché è fiducia in qualcuno di determinato. Se la fiducia è tra gli uomini, costoro, per un verso, si sostengono gli uni con gli altri senza secondi fini, per l’altro, sono mossi da un singolare egoismo: io ti aiuto per il semplice fatto che, nella tua condizione, anch’io vorrei essere aiutato. Ma non dobbiamo pensare a «l’essere utile» soltanto in una logica strumentale, ma a «l’essere utile» in una logica donativa, poiché chi dona è utile. Però ciò non toglie l’incertezza, perché gli uomini hanno rapporti di fiducia non stabile, non sempre sicura. La nostra vita è caratterizzata dall’abbandono e dal tradimento. Molte volte, nel dolore, vediamo che quelli che ci erano accanto spariscono. E poi, magari, scopriamo che quelli che non ci erano accanto arrivano: ecco l’incerta letizia. E quindi è chiaro che bisogna nutrire una fiducia forte in se stessi, anche per poter credere negli altri. Ma questo non toglie l’incertezza. L’instabilità resta. Ecco, gli uomini normalmente sperano così. I cristiani non sperano perché sanno che, in qualunque modo andrà a finire, andrà bene. Di qui, la caratteristica peculiare della speranza cristiana: la fiducia incondizionata. Cosa intendo dire? Contrariamente a quanto accade nelle relazioni umane dove la fiducia è sotto condizione perché l’altro ci può anche abbandonare, il cristiano aderisce ad un’offerta di qualcuno che gli dice: «Io non ti lascerò mai solo». Si pensi al finale del Libro di Giobbe dove si assiste ad un grande paradosso: Dio non risponde al dolore di Giobbe, non gli restituisce i figli, ma lo aggredisce terribilmente, gli dice: «Dove eri tu quando io ponevo le fondamenta del giorno?». E a questo punto Giobbe si prostra, perché non gli interessa più il percorso, ma sa che andrà a finire bene, che non sarà tradito. Chi vive così non spera, crede incondizionatamente. Crede ardentemente. Il paradosso del mio ragionare consiste nel fatto che la speranza è solo profana perché, soltanto nelle relazioni tra dei «tu» relativi, si insinua la possibilità dell’incertezza. Al contrario, quando si aderisce a Chi assolutamente garantisce, non c’è più motivo di sperare. Ed è significativo che, nel Nuovo Testamento, la parola elpis appaia pochissime volte, raramente nei Vangeli, mentre è molto presente in Paolo. Ma, in Paolo, essa è fortemente legata e corroborata da due concetti correlativi, perché altrimenti non la capiremmo. È legata strettamente alla fede, sul piano dell’atteggiamento del soggetto, e alla perseveranza, sul piano della condotta pratica. Cioè la speranza di Paolo non diventa vana speranza, non diventa illusione, non diventa sogno umano, perché si connette a queste due altre componenti, che la bloccano, che la fanno sparire come incerta letizia. Di contro, v’è la certezza dell’affidamento, ne è la conseguenza pratica: la perseveranza. «So in chi ho creduto», dice Paolo. In questo modello in qualche modo salta il tempo, e in base a questo, già ora, io vivo come se fossi salvo. Quindi, da questo punto di vista, il cristianesimo ha dato agli uomini una capacità inaudita di reggere, anzi, di resistere al dolore. Reggere il dolore significa, dal verbo latino gero, governarlo e, nello specifico, indica il se gerere, il se ipsum regere ovvero il condursi dove è il soggetto a dover governare la situazione, a diventarne padrone insieme agli altri, nei modi più adeguati. La resistenza, invece, nasce da una radice invulnerabile, che sono gli impossibilia dei: quello che non è possibile all’uomo è possibile a Dio. E dalla struttura paradossale della tradizione giudaica, e meno in quella cristiana anche se il modello si ripropone, c’è la paradossia. L’essenza della mentalità giudaica è la paradossia: tu vai a trovare Dio e non c’è. Però ti mette sulla via. Non lo incontri mai. Dice sempre che verrà. Ma intanto ti fa camminare, ti fa andare avanti, ti dà forza. Quindi una speranza fondata su un atto di fiducia incondizionata ad una parola può essere il massimo di illusione. O, appunto, essere fede. L’atto di fede confina con l’improbabile. Chi non crede non fa questo salto, perché non riconosce il «Tu», nel senso di Dio, ma nei termini della comunità umana. Ecco, questi sono i momenti di variazione: si può vivere la speranza in condizioni di incertezza coltivando una reciproca fiducia. Si può vivere una speranza incondizionata in una certezza che dice: in qualsiasi modo andrà a finire, finirà bene. E infatti qual è il rischio della fede, che è stato poi il rischio di Giobbe? Il fatto che dinnanzi ad un eccesso tremendo di dolore può venir meno la fiducia. Ma non era forse questa la scommessa che Dio aveva fatto con Satana? La scommessa è tutta sulla fiducia perché Dio vince la scommessa in quanto, nonostante tutto, Giobbe gli resta fedele. La prova dura sulla fiducia incondizionata. Ma chi non presta fede all’idea che ci possa essere una liberazione dal dolore e dalla morte (questo già è Cristianesimo e non Giudaismo), chi non aderisce a questa grande speranza che è appunto la beatitudine eterna, coltiva la speranza nella media vita. E allora la coltiva in condizioni di incertezza: chi non aderisce ad una proposta di salvezza, questo sì che spera, perché vive la fiducia in condizioni di incertezza. Chi, invece, ha una fiducia incondizionata non ha bisogno di sperare. E quindi dentro la struttura del credente la speranza si rivela come una parola pleonastica. Perchè non è l’elpis della biologica volontà di vivere, è la speranza nella risoluzione dell’esistenza, della perfetta beatitudine. E quindi il presente è sempre vissuto nella forma del transito, mentre in una concezione che è il modello greco–classico, ma anche moderno, il problema non consiste nell’affermare: «È un transito, verrà il compimento». Ma intanto io so che andrà a finire bene, quindi non c’è indefinitezza in questo. In ragione del futuro io sopporto il presente. E questo nell’Enciclica del Papa emerge con chiarezza. Chi invece non ha questa fiducia in un «Tu» – che è garante del cammino della storia – è mosso da una speranza breve che coltiva potenziando al massimo le capacità di lotta e di realizzazione nella condizione data. In questo consiste l’essere all’altezza del momento. Tutti e due devono essere all’altezza del momento, ma con motivazioni e strutture mentali diverse. E infatti nelle situazioni drammatiche dell’esistenza si sta in piedi, perché si dice: «O vinco, o sono abbattuto», anche se non ci si aspetta alcun finale. Qui v’è un elemento di contatto tra i due modelli, ed è la perseveranza. Vince chi persevera. Colui che, dinnanzi alle difficoltà, ha la capacità di reggere e affrontare. La perseveranza è la prova della propria forza ed è la radice dello sperare, perché soltanto chi persevera spera, anche se la speranza è breve. Il cammino della perseveranza è ciò che tiene in vita la speranza. Ma questa speranza può essere tenuta in vita dalla speranza in se stessi e negli altri o può essere tenuta in vita dalla fiducia incondizionata che il male sparirà. E qui si apre tutta una questione positiva o negativa, a seconda degli accenti, perché puntando troppo sul futuro si tende poi a svalutare il presente. Al contrario, se il presente è «Hic Rhodus. Hic salta!» – o vinci, qui, o perdi – la fedeltà al presente diventa il modo per coltivare la speranza. Chi spera cristianamente non è fedele al presente, ma vive nel presente un’anticipazione del futuro. Chi non crede, vive nel presente e spera nel presente perché ama la terra: è il grande amore per la terra che ti fa dire sì oltre ogni dolore. Non speri perché speri che finisca bene, ma speri perché ami la terra. E nonostante i dolori dici sì alla vita. Ma, il credente lo dice davvero questo sì? Io ritengo che è possibile che lo pronunci, ma non è detto che lo dica davvero. E d’altro canto questo non è un mio timore, ma è quello di un grande teologo del ‘900, Dietrich Bonhoeffer, il quale sostiene che la storia della cristianità ha puntato troppo sull’ultimo e poco sul penultimo. Bisogna guardare di più al penultimo perché puntare troppo sull’ultimo significa divenire infedeli alla terra. Però, se si punta troppo sul penultimo, sfuma nel vago la «grande speranza». Qual è il punto di equilibrio per i cristiani? Chi è fedele al presente deve trovare un punto di equilibrio in un altro luogo, nel qui e ora del momento, nella speranza breve di vincere nel proprio presente e lasciare a coloro che verranno un mondo migliore rispetto al modo in cui l’abbiamo trovato quando siamo entrati. La speranza di consegnare, a chi amiamo, un futuro più amabile, che potrà precipitare se quelli che verranno non sapranno in pari misura coltivare la fedeltà alla terra. Non consegniamo a chi verrà qualcosa di definitivo, consegniamo una pedagogia perché possano migliorare il loro mondo e le loro condizioni. Ma se non praticheranno questo, il mondo potrà arretrare e non migliorare. Quindi il miglioramento del mondo non è la fine del mondo, è la fedeltà al presente in ogni momento perché solo in questo modo il presente non si inabissa nel peggio. La vita vuole se stessa in questa fedeltà. Ma, per far questo, sembra che il «Tu» non sia affatto necessario. Tranne che per un punto che ha fatto irrompere nella storia dell’umanità una verità o un sogno. Che ci sarà un tempo, un eterno presente non più toccato dal dolore e dalla morte. Questo sì che può essere, davvero, creduto. Non ci sono prove che lo possano dimostrare. È il salto, è la speranza senza alcun fondamento. Se non il salto stesso.
*testo non rivisto dall' autore

Luciano Monari

Sono nato nel 1942 nel cuore di quella tragica guerra che ha svenato l’Europa e ha infranto di colpo tanti sogni e smascherato tante illusioni. Quando nacqui mia madre soffriva di una forma dolorosa di artrite progressiva che le impediva alcuni lavori e minacciava di renderla completamente invalida. Mi sono chiesto che cosa, in questa situazione generale e personale, possa avere giustificato la mia nascita; che speranze potessero nutrire i miei genitori sul futuro, sul loro futuro e sul mio. Naturalmente non m’interessa la precisa ricostruzione psicologica dei sentimenti o delle paure che possono avere accompagnato i mesi della gravidanza di mia madre. Una tale ricostruzione storica mi è impossibile per insufficienza di dati; non posso interrogare i miei genitori per conoscere i fatti; e anche qualora i miei genitori fossero ancora vivi, la loro stessa memoria non potrebbe offrirmi risposte esatte; il tempo altera inevitabilmente i ricordi o, forse meglio, 1i reinterpreta al contatto con le nuove esperienze. La mia domanda si colloca su un piano diverso da quello della ricostruzione precisa del passato: voglio comprendere che cosa significa e comporta il fatto che io sono nato e che sono nato in certe condizioni precise; che cosa questo m’insegna sulla mia vita, sul suo senso e sul modo corretto di viverla. Mi sembra che l’interrogativo non sia evitabile. Non ho scelto io di nascere, ma tocca a me vivere. In teoria potrei anche dire: scelgo di vivere come mi pare e piace; ma sarebbe un rifiuto della realtà e quindi una forma di non–au - ten ticità. Ogni risposta corretta che posso dare al problema della mia vita posso intenderla solo come una risposta (o una reazione) a una chiamata, a un dono, a un invito, a un evento che l’ha generata. Posso usare molte parole diverse ma il senso è chiaro: e cioè che la mia vita non è un primum assoluto che può procedere senza riferimenti dandosi così regole arbitrarie, ma è radicata su qualcosa che la precede e che, inevitabilmente, ne determina la forma. Mi ritrovo benissimo nelle parole di Hannah Arendt quando scrive: “Esiste una sorta di gratitudine di fondo per tutto ciò che è così come è; perciò che è stato dato e non è, né potrebbe essere, fatto; per le cose che sono physei e non nomos.” È la fisionomia di questo qualcosa che precede che vorrei anzitutto chiarire a me stesso per riuscire a comprendere meglio la via della mia autenticità, della mia vera “umanizzazione”. Ogni atto di generazione porta in sé, nella sua struttura essenziale, un atto di speranza, nella sua forma più bella! Secondo Gabriel Marcel la formula della speranza è: “io spero in te per noi”; e cioè: io decido liberamente e responsabilmente di legare il mio futuro a te perché spero (ho ferma fiducia) che tu ed io, insieme, potremo aprire davanti a noi un futuro nostro che sarà significativo, positivo, degno di essere vissuto! È questo che i genitori dicono quando mettono al mondo un figlio! Anche qui intendiamoci bene: non sto di cendo che i genitori siano sempre consapevoli di questo significato del loro gesto procreativo (la vita è più grande della nostra consapevolezza e non sempre sappiamo pienamente quello che facciamo); e nemmeno che, con la loro libertà, siano sempre all’altezza di quello che fanno quando mettono al mondo un figlio (disattenzione, stupidità, irresponsabilità, cattiveria sono purtroppo sempre possibili nella nostra concreta esperienza). È naturalmente possibile che un atto concreto di procreazione sia non pienamente umano, casuale, addirittura bestiale o criminale; tutto questo è rilevante per la valutazione morale del comportamento e si pone a questo livello. Quello che sto dicendo è però un’altra cosa: e cioè che la procreazione, in quanto gesto umano e quindi per sé significativo, contiene necessariamente un’apertura radicale alla speranza. Negare questo significherebbe affermare che il gesto di mettere al mondo un figlio (e cioè uno dei gesti certamente più determinati nella vita di una persona, più ricchi di conseguenze) è puramente casuale e non ha bisogno di spiegazioni o interpretazioni. Questa è un’alternativa che chiuderebbe il discorso prima di iniziarlo, ma che non mi sento di accettare; vorrebbe dire, infatti, che non c’è nessun senso in nessun gesto umano e che ogni riflessione, ogni tentativo di acquistare consapevolezza può solo essere strumentale, una strategia per assicurarsi, tranquilli in coscienza, qualche soddisfazione o giustificazione. Ma questo è chiaramente falso perché io — e molti altri, s’intende — pongo gesti etici nei quali ciò che ricerco (ricerchiamo) è il giusto e non il gradevole; e non ho nessun desiderio di diventate una persona pre–morale, che non si pone problemi di bene o di male, di buono o cattivo quando deve scegliere. Dunque nel fatto di essere stato messo al mondo sono invitato a vedere un atto di speranza nei miei confronti. Dandomi la vita, i miei genitori implicitamente mi hanno detto: “Speriamo in te per noi, per il futuro della nostra famiglia”. Ma qui emerge qualcosa di sorprendente, perché i miei genitori non sapevano nulla di me, di quello che sarei stato, di quale significato la mia vita avrebbe finito per assumere per loro: sarei diventato ‘il bastone della loro vecchiaia’, come si ripeteva ai miei tempi? O sarei andato per la mia strada, dimenticandoli e abbandonandoli a loro stessi? O, ancora, sarei stato la loro dannazione, un peso grave di fatica e di vergogna da sopportare? Non lo sapevano; nessuno lo può sapere quando mette al mondo un figlio; e nemmeno la diagnosi preimpianto può togliere questa indeterminatezza. Come porre, allora, responsabilmente, un atto così impegnativo di speranza? La mia nascita ha rivoluzionato la vita dei miei genitori: hanno dovuto mettere in atto delle strategie inedite di risposta ai miei bisogni, strategie che hanno condizionato profondamente il loro vissuto; e tutto questo senza essere sicuri che avrebbero avuto un ritorno adeguato. Fino a tre anni, mi hanno raccontato, sono cresciuto a latte e dopo il periodo dell’allattamento materno, hanno dovuto fare ricorso al mercato agricolo; potete immaginare cosa questo significasse in tempo di guerra con tessera annonaria e assegnazioni di cibo scarsissime. Ma, a parte questo problema specifico, il prezzo che i genitori pagano è evidente a tutti: un notevole prezzo economico, ma soprattutto il prezzo di molteplici rinunce; cosa può significare un criterio di vita come il famoso (e per certi aspetti prezioso) carpe diem per chi deve tirar su dei figli? Quanti appuntamenti culturali dovranno cancellare dall’agenda? Quanti progetti di carriera ridimensionare? Che cosa li spinge a pagare questo prezzo se non un atto forte di speranza? È un atto di speranza che non poggia sul dato verificabile delle qualità del bambino stesso, ma su qualcosa di ulteriore che – anche prima di ogni verifica – fa vedere il bambino – ogni bambino – come una promessa, una ricchezza, un’opportunità immensa. Si deve dire allora che alla radice di tutto questo c’è un radicale atto di fiducia e di speranza nella vita: la fiducia nella vita fonda e rende possibile la fiducia in quel bambino concreto che nasce come un ignoto; la speranza nella vita rende possibile la speranza nel figlio. I miei genitori hanno detto di sì alla mia nascita perché hanno detto di sì alla vita stessa riconoscendola come un valore positivo e prezioso. Potevano forse essere spinti a pensare così da diverse considerazioni: i figli sono anche una risorsa dal punto di vista economico; l’ambiente sociale spingeva un tempo nella direzione dei figli; maternità e paternità sono arricchimenti della propria esperienza di umanità, e così via. Ma al di là di questa motivazioni immediate che possono cambiare da un caso all’altro credo si possa dire: questo atto di speranza (nella vita in genere e nel figlio concreto in particolare) è fondato sul fatto stesso di vivere; chiunque accetta di vivere esprime in questo modo una fiducia radicale nella vita stesso. Come dicevo, non ho deciso io di vivere; mi sono trovato a vivere ricevendo l’esistenza da altri. Ma, naturalmente, dipende da me accettare la vita o rifiutarla; riconoscerla un dono (non intendo con questo termine necessariamente qualcosa di bello, ma certo qualcosa di degno) o respingerla come una condanna. Se vivo, se continuo a vivere, implicitamente affermo che la vita è cosa degna; che la fatica di vivere è positiva. Da qui la possibilità di pone un atto di speranza nei confronti del figlio che nasce. Non so ancora nulla di lui, di quello che diventerà; ma so che la vita è un valore; lo so perché io stesso vivo e, nonostante le fatiche, le delusioni, le sofferenze, sono contento di esistere e continuo a voler esistere. Dunque all’origine della mia esistenza sta un atto di speranza che è stato posto dai miei genitori; un atto di speranza in me, come se i miei genitori avessero detto: “Luciano, noi speriamo in te e siamo convinti che la tua esistenza arricchirà noi tutti; che la nostra esistenza con te sarà più degna di essere vissuta e che giustificherà le sofferenze e le fatiche presenti”. È un atto di speranza nella vita, come se avessero detto: “La nostra vita è faticosa e comporta dei rischi; ma ciononostante, la riconosciamo degna di essere vissuta; siamo perciò convinti che, come abbiamo ricevuto gratuitamente la vita, sia giusto che altrettanto gratuitamente la doniamo; riteniamo infatti che la vita che doniamo sia un vero dono, cioè la trasmissione di qualcosa di buono”. Su questa premessa, credo di poter dire che sono fedele alla vita che ho ricevuto proprio quando faccio mia, consapevolmente, la speranza. In caso contrario smentirei i miei genitori e la loro speranza nella vita; ma soprattutto smentirei il fatto che io vivo a motivo della loro speranza e, poiché vivo, de facto accetto la vita che essi mi hanno donato. Insomma, dire di sì alla mia vita implica dire di sì alla speranza; reciprocamente rifiutare la speranza implica il rifiuto di quella vita che ho ricevuto. Speranza, dunque, ma per che cosa? Torno alla formula di Marcel: “Io spero in te per noi”. Io spero nella vita per quello che la vita mi donerà. Ma che cosa, in concreto, mi aspetto dalla vita? Quali caratteristiche possiede il futuro che attendo? Qui, forse, può sembrare che entriamo in un campo così ampio da impedire ogni affermazione concreta precisa Perché le speranze degli uomini sono infinite e così varie da non poter essere ricondotte a unità se non in modo del tutto astratto e generico. C’è chi spera nel week–end e fatica per tutta la settimana attendendo (sperando) di potersi divertire il sabato e la domenica; c’è chi spera in una carriera folgorante e per questo si sottopone a rinunce improbe, costringendo amici e familiari ad accontentarsi di qualche frammento della sua attenzione; c’è chi spera in una persona concreta e non riesce a immaginare un futuro senza di quella e c’è chi è disposto a sacrificare la sua esistenza sperando in una vita oltre la morte. La varietà degli oggetti della speranza sembra tale da non permettere una intuizione complessiva. Eppure, forse, qualcosa si può dire: l’uomo è un essere che nasce non fatto ma da fare; e l’uomo si fa attraverso tutte le esperienze della sua vita: le gioie e i dolori, la conoscenza e il lavoro, le relazioni umane, l’amicizia, l’amore Che cosa può sperare l’uomo se non che la sua vita vada verso la pienezza? Che diventi “autentica” e cioè un’esistenza nella quale si manifesti al meglio l’umanità dell’uomo: la nobiltà del suo impegno etico per il bene, la fedeltà del suo impegno verso gli amici, la grandezza della sua capacità di sacrificio, la sua realizzazione nell’atto di amore? Questa definizione amplissima del contenuto della speranza comprende in sé tutte le possibili determinazioni e serve anche da loro criterio di verifica. Posso dire ad esempio che spero di diventare scrittore. Questo obiettivo: “diventare scritto re” è un oggetto autentico di speranza se è inteso e vissuto come modalità di esprimere se stessi e di entrare in comunicazione umanamente ricca con gli altri (penso, ad esempio, al desiderio di Etty Hillesum di arrivare, un giorno, a scrivere un libro significativo, in cui esprimere la sua ricchezza di vita – desiderio che si è compiuto pienamente nelle pagine del suo diario e delle sue lettere, ma, paradossalmente, senza che lei se ne rendesse conto); lo stesso desiderio sarebbe invece oggetto non autentico di speranza se fosse inteso unicamente come modo per conquistare un effimero traguardo di successo o di cassetta. Nel primo caso, infatti, il risultato è una crescita in umanità; nel secondo il risultato è invece una caduta nella non autenticità perché l’uomo, in qualche modo, svende la sua umanità per ottenere quel piatto di lenticchie che è l’applauso di una platea o un conto in banca. La formula della speranza diventa dunque: “Io spero nella vita per giungere a una umanità autentica, a una pienezza di umanità”. E cioè: mi pongo di fronte alla vita con un atteggiamento di fondo positivo, nella convinzione che la vita non mi tradirà (e cioè, non mi bloccherà in un’esistenza non umana, impedendomi di crescere verso il compimento di me stesso), ma mi offrirà le possibilità concrete di portare a perfezione la mia umanità! Ho detto: spero nella vita! Vorrei spiegarmi meglio. Mentre scrivevo questa frase mi sono chiesto se dovevo scrivere “vita” con la maiuscola o minuscola! Perché certo la vita in cui spero non è semplicemente la vita biologica, quella che mi viene dall’evoluzione della specie: su questa vita debbo necessariamente contare perché non sono un angelo e non desidero diventarlo, ma mi risulta impossibile sperare in lei. Non mi basta, infatti, un’esistenza biologicamente perfetta (sana, efficiente); e, viceversa, se la mia esistenza biologica è deficiente (non del tutto sana; non del tutto efficiente) non per questo la mia speranza viene messa alle corde. Anzi, paradossalmente, il limite biologico può esaltare la profondità della speranza che mi nutre. Forse gli esempi più significativi della speranza, dal punto di vista umano, li troviamo proprio in persone che hanno dovuto lottare contro handicap o contro ostacoli gravi; persone che hanno vissuto in situazioni di condizionamento esterno grave. Ho ricordato sopra Etty Hillesum, ebrea morta ad Auschwitz. Potrei ricordare Viktor Frankl; nessuno si aspetterebbe di trovare consolazione in un libro come Uno psicologo nel lager; e invece è proprio così. Non sto idealizzando la difficoltà, s’intende; dico solo che un handicap fisico o di situazione non è un impedimento assoluto e che l’uomo è in grado di trasformarlo in opportunità per la realizzazione della sua umanità. Torniamo alla formula di Marcel: “Io credo in te per noi”. Sono decisivi, in questa formula, i pronomi personali: io–tu. Non si tratta, infatti, di sperare in qualche fortuito evento futuro dal quale dipenderebbe la mia felicità (“spero in un colpo di fortuna che sistemi definitivamente la mia vita”); o di sperare in un oggetto concreto particolare (la ricchezza, la salute, la carriera); si tratta, invece, di portare a compimento la mia umanità nella sua capacità di responsabilità e di amore e questo richiede che di fonte a me stia ‘tu’: un soggetto personale che mi risponde con la sua libertà e che collabora con me per il compimento della nostra vita. In questo modo la speranza nella vita si specifica nella speranza che nasce da ogni rapporto umano significativo: la vita mi ha portato a contatto con te. Considero la tua presenza non come un impedimento alla mia crescita, tanto meno come una minaccia che può togliermi il mio ‘spazio vitale’; la vedo piuttosto come una opportunità che mi è data per portare a compimento quello che sono, per dare vigore al dinamismo che mi costruisce come persona. E tuttavia debbo riconoscere che la autenticità è una conquista incerta e che, con grande probabilità, non raggiungerò mai il compimento pieno della mia vita. Sono arrivato a sessantacinque anni; la maggior parte della mia vita è passata; alcune capacità che possedevo sono venute meno: la memoria è diventata legnosa, proprio adesso che ne riconosco come non mai l’importanza. So che non riuscirò più a fare molto. Debbo allora perdere la speranza? È vero quello che dice Leopardi e cioè che la speranza è propria della giovinezza che ha davanti a sé tutto il futuro mentre perde poco alla volta il suo smalto, quando comincia a prevalere la memoria? È chiaro: se la speranza fosse legata del tutto e solo alle mie possibilità, essa decadrebbe insieme col venir meno di queste. Quando ho davanti tutta la vita e quando tutte le possibilità sono intatte, allora la speranza sarebbe massima; man mano che il tempo passa, però, lo spettro delle possibilità diminuisce e quindi dovrebbe diminuire la speranza. Se così fosse, il giudizio non potrebbe che essere negativo; simile sempre a quello di Leopardi che rimprovera la natura di non offrire mai all’uomo tutto quello che gli promette nella sua giovinezza. Il problema diventa più pungente proprio in questi anni. Il progresso economico e medico ci ha allungato la vita e questo rende più probabile l’insorgere di malattie degenerative come, ad esempio, l’alzheimer. Ora, l’alzheimer non è solo una brutta malattia, ma è un simbolo, è la decostruzione di una vita intera: vengono meno i legami che abbiamo costruito con tanta cura, vengono meno le conoscenze che ci hanno affascinato, viene meno la memoria della quale si nutre la nostra identità personale. È anche la fine della speranza? E più in generale: può la speranza avere una fine? Qui mi perdo e faccio fatica ad andare avanti. Torno allora all’inizio, alla domanda da cui sono partito. Perché i miei genitori hanno deciso di darmi la vita anche se le circostanze della guerra non permettevano di intravedere nulla di buono sull’orizzonte del futuro? Ho risposto dicendo che lo hanno fatto perché, implicitamente, nutrivano una profonda speranza nella vita. Per quanto riguarda mia madre posso anche dire: perché nutriva una profonda speranza in Dio. È stata probabilmente questa speranza che l’ha guidata a non cercare di abortire anche se le sue condizioni fisiche erano problematiche; per lei la fiducia nella vita e la fiducia in Dio si sostenevano e si giustificavano a vicenda. Sono portato allora a farmi un’altra domanda: che cosa aggiunge la fede alla speranza? E più in generale: la fede in Dio ha qualcosa da dire sulla speranza? Ho descritto sopra alcuni passaggi che definiscono il dinamismo implicito nell’atto di speranza: la formula “io spero in te” è diventata “io spero nella vita”; poi la vita è stata scritta con la V maiuscola; che senso ha fare l’ultimo passaggio e sostituire il termine “vita” col termine “Dio”? Naturalmente non è il cambiamento del termine in quanto tale che conta, ma il nuovo punto di appoggio al quale si fa riferimento con questo termine. “Dio” significa soggetto libero e consapevole dalla cui libertà viene tutto quello che esiste, che tiene nelle sue mani la matassa intricata della storia e che, come dice Giobbe, “ultimo si ergerà sulla polvere” (Gb 19,25). Ancora: dicendo “Dio” intendo il Padre del Signore Nostro Gesù Cristo, quel Dio di cui si legge in Giovanni che “ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito perché chiunque crede in lui non muoia ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). Dev’essere tanto rilevante questo Dio nel fondare la speranza che Paolo, scrivendo agli Efesini, cristiani provenenti dal paganesimo può dire: “Ricordatevi che un tempo voi eravate... senza speranza e senza Dio in questo mondo” (Ef 2,11,l2). Dunque: che cosa aggiunge la fede all’edificio della speranza che ho decritto sopra? Anzitutto la solidità del fondamento. Ho costruito tutto sull’atto di speranza implicito nella decisione dei miei genitori di darmi la vita. Naturalmente quello che ho detto per me, valeva anche per i miei genitori, i miei nonni, i bisnonni e così via, da una generazione all’altra. Il legame tra le generazioni, la trasmissione della speranza da una generazione all’altra sono salde. Ma l’edificio nel suo complesso lo è nello stesso modo? O debbo dire che l’edificio è compatto ma che le sue fondamenta non si vedono? Che tutto potrebbe vagare nell’aria come una bolla di sapone che potrebbe scoppiare in ogni istante? La riconosce in Gesù di Nazaret, cioè in un uomo concreto che sta dentro le coordinate della storia, la rivelazione dell’amore di Dio. In quest’uomo l’amore di Dio si è fatto visibile e ha preso forma umana. San Paolo può allora scrivere che “la speranza non delude perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rom 5,5). Ci viene svelato, infatti, che la struttura del mondo stesso è costruita dall’amore di Dio e che questo stesso amore è posto dentro di noi, come sorgente di pensieri, desideri, decisioni. Tutto questo rende la speranza assoluta e cioè non dipendente da condizioni particolari, ma iscritta nell’esistenza stessa del mondo. In questo modo, forse, possiamo assumere anche la dimensione di incompletezza che accompagna ogni realizzazione personale concreta. Il problema è questo: come posso continuare a sperare quando so, e mi accorgo sempre meglio, che la realizzazione di umanità che riuscirò a conseguire rimarrà incompleta e incerta? Il riferimento a Dio fa impostare in modo nuovo questo problema. Perché se la mia realizzazione personale fosse la pura conquista di un patrimonio personale, riconoscere che questo patrimonio è incompleto comporterebbe di riconoscere la mia stessa vita come incompleta. In realtà nella umanizzazione della mia esistenza non c’è niente di privato: sono e divento uomo attraverso relazioni significative con gli altri e con Dio. Quello che mi mancherà al termine della mia vita sarà supplito dagli altri e da Dio. Non nel senso che gli altri o Dio mi trasmettano una quantità di umanità che completerà il mio vuoto, come un Deus ex machina che risolve magicamente la difficoltà; ma nel senso che la comunione reale con Dio e con gli altri mi renderà partecipe della bellezza e della ricchezza che gli altri e Dio possiedono. Non mi è chiesto di avere tutto, non mi è chiesto di conquistare tutto, è chiesto di portare un piccolo frammento di autenticità e di aprirmi ai mille altri frammenti e soprattutto alla sorgente eterna dell’amore che è Dio. Insomma, ogni esistenza umana, anche la più bella, è solo una realizzazione incompleta: la sua pienezza, la sua bellezza dipendono dall’apertura a Dio e agli altri e al mondo. E ogni frammento di autenticità è appunto questa apertura. C’è un ulteriore elemento cui vorrei solo accennare ed è il confronto, la lotta della speranza con la realtà inevitabile della morte. È la lotta che ha tormentato il saggio Qohelet che, dopo aver fatto l’esperimento della vita e aver provato ogni cosa, conclude la sua riflessione dicendo: “Ho preso in odio la vita, perché mi è sgradito quanto si fa sotto il sole. Ogni cosa infatti è vanità e un inseguire il vento” (Qo 2,17). Qohelet non si rassegna all’effimero; e poiché non vede modo di sfuggirgli, conclude con una valutazione negativa della vita. Conosce, certo, e consiglia di cogliere le gioie belle che la vita può offrire: “Non c’è di meglio per l’uomo che mangiare bere e godersela nelle sue fatiche” scrive; ma il bilancio definitivo rimane in rosso: “Anche questo è vanità e un inseguire il vento” (Qo 2,24.26). La questione diventa seria quando questo limite della morte si trasforma in un criterio di vita e rischia di produrre un’esistenza egocentrica, rivolta tutta alla difesa di sé. Come dicono gli empi del cap. 2 della Sapienza: “Su, godiamoci i beni presenti, facciamo uso delle creature con ardore giovanile perché questo ci spetta, questa è la nostra parte”. Ma questo programma seducente assume presto un’altra fisionomia, ambigua e cinica: “Spadroneggiamo sul giusto povero, nessun riguardo per la canizie ricca d’an ni del vecchio. La nostra forza sia regola della giustizia, perché la debolezza risulta inutile” (Sap 2, 6.9–10). Qui la mancanza di speranza provoca una mancanza di amore, l’incapacità di aprire il cuore al dono irrevocabile, senza ritorno. L’annuncio della risurrezione di Gesù spezza questa catena mortificante e mantiene aperta la speranza anche di fronte alla morte, garantisce la libertà dell’uomo. Dice la lettera agli Ebrei: “Poiché i figli hanno in comune il sangue e la carne, anch’egli [Gesù] ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita” (Eb 2, 14–15). In questo modo viene conservata la libertà di amare, di donare, di sacrificare se stesso anche se questo amore, nel computo mondano, dovesse risultare senza copertura. Il senso dell’annuncio cristiano della risurrezione sta qui: nella proclamazione che il legame con Dio operato dalla fede è un legame autentico, non puramente mentale; e proprio perché è un legame autentico, stabilito da Dio stesso, non può essere distrutto dalla morte; in questo caso, infatti, la morte si mostrerebbe più forte di Dio. È sulla base di questa fede che san Paolo può intonare uno straordinario inno alla speranza del credente quando scrive: “Che diremo, dunque? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il suo proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni altra cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi. Chi ci separerà dunque dall’amore di Dio? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, lo spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,31–39).

Articolo pubblicato sul numero 95 di CULTURA&DINTORNI

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