Schopenhauer parlò di una volontà cosmica, un «io trascendentale» a cui l’uomo è asservito: «La Volontà vuole tutto, e si realizza ogni giorno attraverso le volontà dei singoli individui. Non la dominiamo: possiamo cercare di limitarla, lottare con essa quando ne avvertiamo il pericolo (ad esempio la spinta delle pulsioni) opponendole però un’altra espressione della stessa Volontà». Lasciando venire a noi le cose e considerandole per la loro utilità assecondiamo la Volontà; e generiamo un paradosso, perché «questa Volontà. Che è il principio primo di tutto, rappresenta l’assolutamente inutile: non ha infatti alcun fine oltre se stessa». Ecco perché una «vita compiuta» entro tale orizzonte ci fa percepire il non senso dell’esistenza. «La realizzazione della Volontà si trasforma in “noluntas”. Realizzandosi si nega, perché la sua realizzazione non ha alcun senso». Ma è possibile vivere non ossessionati dalla ricerca verso la realizzazione dell’Io? Non per l’intera vita, risponde Donà, ma nei momenti in cui si è capaci di assumere il punto di vista di filosofi e artisti: «Il filosofo ricerca nelle cose non il significato, ma il senso». Vede cioè «il semplicissimo fatto che le cose esistono, al di là della loro funzione utilitaristica». Ha occhi, «per il puro esserci delle cose». E sa che l’essere «non è tale in vista di nessun fine, ma è il predicato di ogni significato».
Ci si inoltra così in un altro genere di avventura, quella che vive chi è capace di «farsi meravigliare dall’essere». Sono filosofi, pittori, poeti: «De Chirico e manritte erano anche grandi filosofi. De Chirico parlava del “terribile vuoto” scoperto dall’arte: la “tranquilla, insensata bellezza della materia”. E Magritte osservò che le cose sono nascoste dagli usi a cui sono adibite». Assoggettandole all’uso scompare infatti proprio il mistero della loro esistenza. Con questa consapevolezza, l’avventura della vita quotidiana può diventare la stessa della filosofia: «Non cercare una vita compiuta ma rapportarsi alla totalità: che non è una quantità, l’insieme di tutte le cose, ma una qualità, l’essere che le abbraccia tutte ne è il predicato». Si comprenderà allora che la finitezza della nostra esperienza non è un inciampo da superare: «Siamo sempre sguardi aperti sulla totalità».