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Perchè? - 2013 - II edizione

«Spinto dalla sete, ho adocchiato, fuori di una fnestra, un bel ghiacciolo a portata di mano. Ho aperto la fnestra, ho staccato il ghiacciolo, ma subito si è fatto avanti uno grande e grosso che si aggirava là fuori, e me lo ha strappato brutalmente. – Warum? – gli ho chiesto nel mio povero tedesco. – hier ist kein Warum (qui non ci sono perché) – mi ha risposto, ricacciandomi dentro con uno spintone». Se questo è un uomo, Primo Levi

A S. E. MONS. CARLO MARIA MARTINI IN MEMORIAM


Sotto l’ Alto Patronato del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, con il Patrocino dell’Assessorato all’Istruzione, Formazione e Cultura della Regione Lombardia, della Consigliera di Parità Provinciale, della Provincia di Brescia, del Parco Oglio Nord nonché degli enti ospitanti e in partnership con la Fondazione Movimento Bambino prende il via la II edizione di Fare memoria.


Con questo ciclo l’Associazione culturale Filosof lungo l’Oglio intende confermare l’intendimento pronunciato lo scorso anno con l’inaugurazione di una sezione invernale dedicata alla Shoà: ossia il fatto di rimarcare l’ineludibilità del fare memoria per la coscienza collettiva, per le nuove generazioni, per le inevitabili sfde che pone l’ingresso nell’era della post memoria, quella in cui i testimoni oculari dell’orrore se ne stanno andando, ad uno ad uno, lasciandoci un imperativo, che suona quasi come una preghiera: «Non dimenticate».

Di qui la variazione del sottotitolo di questa seconda edizione: perché? Un interrogativo che, dopo l’indagine svolta nel 2012 sul che cosa è stato, intende fare i conti fno in fondo con le malie nelle quali il male irretisce le sue vittime, a partire da quel controevento che si chiama Shoà, come ebbe modo di defnirla Arthur A. Cohen. Perché tutto ciò è stato possibile? Perché Dio tacque e perché quel male ha sedotto così tanti uomini? Perché certe connivenze, certi silenzi? Perché si può ancora sperare dopo quell’orrore? E perché si può parlare di un antisemitismo al di là dell’antisemitismo? Perché, ad Auschwitz, per riprendere Primo Levi, «non c’è perché»? È a partire dal moltiplicarsi di questi interrogativi che l’Associazione culturale Filosof lungo l’Oglio – con al suo interno, un Comitato scientifco così costituito: Bernhard Casper, Salvatore Natoli, Adriano Fabris, Aldo Magris, Maria Rita Parsi, Paolo Becchi, Amos Luzzatto, Ilario Bertoletti – intende proporre un percorso capace di indagare la Shoà da un punto di vista flosofco, storico, teologico, letterario per fare della memoria non una mera cerimonia pubblica, ma un momento di rifessione e di approfondimento che sia in grado altresì di tenere deste le coscienze dinnanzi alla sfda di un male che, per riprendere Ricoeur, è già là. Il ciclo del 2013 acquisisce, inoltre, una particolare solennità poiché è dedicato, nel fare memoria, alla memoria di una figura chiave per il dialogo ebraico-cristiano: Sua Eminenza, il Cardinale Carlo Maria Martini, che ammonisce: «I mostri del nazionalismo, del razzismo, del fanatismo ideologico e religioso, possono ancora afascinare nuove generazioni, se noi le priveremo della memoria. Ad Auschwitz siamo chiamati anche noi, all’aurora del terzo millennio della redenzione, quasi come a una sosta dolorosa sulla via verso il Sinai e verso Gerusalemme. La strada dell’incontro fraterno con Israele passa ormai necessariamente per Auschwitz».

Come è elemento costitutivo del nostro Festival estivo, la rassegna, fedele al binomio luogo- pensiero e al format di un circuito itinerante e, dunque, di una cultura radicata sul territorio, si articolerà in otto incontri complessivi (tutti ad ingresso libero), distribuiti in otto località della Provincia di Brescia, che si terranno dal 17 gennaio al 21 febbraio 2013. Accanto ai Comuni già teatro della precedente edizione: Brescia, Castrezzato, Orzinuovi, Travagliato, spicca l’ingresso di quattro nuove realtà municipali: Erbusco, Leno, Rovato, Palazzolo. I relatori saranno, come è consueto, di elevata caratura: da David Meghnagi – ideatore e direttore del Master internazio- nale di secondo livello in Didattica della Shoà all’università di Roma Tre, nonché Professore di Psicologia Clinica, Psicologia dinamica, Psicologia della Religione e Pensiero Ebraico al Master Internazionale in Scienza della Religione presso lo stesso ateneo e Membro della Delegazio- ne italiana presso la Task Force for International Cooperation on Holocaust Remembrance and Education – a Ugo Volli – professore ordinario di Semiotica del testo all’Università di Torino, dove è anche direttore del CIRCE (Centro Interdipartimentale di Ricerca sulla Comunicazio- ne) – ; da Simona Forti – tra le più autorevoli studiose di Hanna Arendt, professoressa di Storia del pensiero politico contemporaneo presso l’Università del Piemonte Orientale, dove dirige il Centro di ricerca sulla Biopolitica BIOS – a Massimo Giuliani – professore associato di Studi Ebraici e di Ermeneutica flosofca all’Università di Trento e Visiting Associate Professor nel dipartimento di Filosofa e di Studi religiosi della George Mason University (Usa). E ancora da Paolo De Benedetti – considerato uno dei maggiori e più originali studiosi contemporanei dell’Ebraismo e già docente di Giudaismo presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale e di Antico testamento presso gli Istituti di Scienze Religiose dell’ Università di Urbino e di Trento – a Bernhard Casper – tra i maggiori flosof della religione contemporanei, professore emerito di Filosofa della religione all’Università Freiburg im Breisgau, proclamato, lo scorso 8 luglio, vincitore della I edizione del Premio Internazionale di Filosofa/Filosof lungo l’Oglio: un libro per il presente –; da Gabriele Nissim – saggista, scrittore, Presidente del Comitato per la Foresta dei Giusti – a David Bidussa, scrittore, giornalista, saggista nonché storico delle idee.


L' IMPERATIVO DELLA MEMORIA

V'è un passo in Se questo è un uomo di Primo Levi, che non può non catturare la nostra attenzione per il divieto che ne trapela:

«Spinto dalla sete, ho adocchiato, fuori di una fnestra, un bel ghiacciolo a portata di mano. Ho aperto la fnestra, ho staccato il ghiacciolo, ma subito si è fatto avanti uno grande e grosso che si aggirava là fuori, e me lo ha strappato brutalmente. – Warum? – gli ho chiesto nel mio povero tedesco. – hier ist kein Warum (qui non ci sono perché) – mi ha risposto, ricacciandomi dentro con uno spintone».

Come è noto, ad Auschwitz non si potevano avanzare domande, né tantomeno chiedere spiegazioni. Esistevano solo gli ordini, le umiliazioni, gli inganni, la violenza bruta, la volontà di ridurre l’altro a cosa. A numero. A non-persona. A non essere umano. A muselman. Ad automa. Dinnanzi a tutto ciò che si è potuto leggere e conoscere di quel «contro-evento» che si chiama Shoà, non si può che violare l’interdetto proclamato dalla SS. Non si può e non ci resta che chiedere: perché? Un perché che rischia di squarciare il cielo della tranquilla indiferenza in cui ciascuno sarebbe tentato di rinchiudersi per la semplice ragione che questo interrogativo non fa altro, e non può far altro, che generarne, a sua volta, di nuovi trascinando il nostro pensiero in una sorta di spirale che scava e scende nell’abisso; riducendo le nostre parole a un semplice balbettio, esponendo le nostre argomentazioni al rischio dell’aporia.

Persino Raul Hilberg che «è forse il più attendibile storico della Shoà, colui che ha meglio spiegato come tutto ciò sia avvenuto – rammenta Massimo Giuliani nel suo scritto Auschwitz nel pensiero ebraico – ha confessato di aver molto pensato anche al perché tutto ciò sia avvenuto, ma di essere rimasto come intrappolato in una risposta tautologica: “Essi lo hanno fatto, perché hanno voluto farlo”». La risposta a questo perché implica una doppia problematizzazione e chiama in causa una delle eterne domande della flosofa: unde malum? Doppia problematizza- zione poiché se, per un verso, si nega la dignità dell’altro fno a ridurlo a non-uomo rinnegando così, non solo la seconda formula dell’imperativo categorico kantiano, ma quell’appello in cui, secondo lo stesso Kant, consiste la necessità morale ovvero «l’assoluta bontà dell’atto libero», che è la bonitas moralis; per l’altro, ciò che viene messo in discussione è, per così dire, il silenzio di Dio mentre la furia nazista azionava la macchina della morte o, se si vuole, l’hester panim, il nascondimento del Suo volto. V’è, a nostro parere, un libro, tra i tanti preziosi ad istruirci e ad orientarci in questa nebulosa che insieme confonde lo sguardo e paralizza il pensiero, che è Quale Dio? di Paolo De Benedetti.

Il pensiero di De Benedetti – ostile, da sempre, alle sistematiche incursioni della metafsica – appare tutto sospeso tra la dimensione sacrale e ieratica del Dio che punisce i due fgli di Aronne per avergli oferto un fuoco profano e il Dio che ha sancito l’alleanza con il popolo d’Israele, in un’elezione che è onore e onere. Una dicotomia, tuttavia, che è messa a dura prova da quella cesura della storia che è la Shoà. Di qui, l’emergere di un interrogativo: Quale Dio?, che diventa quasi cifra di una teologia del debito di Dio, categoria che si deve a Ilario Bertoletti che, non a caso, titola in tal modo il suo lavoro sul pensiero di Paolo De Benedetti (Morcelliana, Brescia 2013).

Una domanda – quella sollevata da De Benedetti – che andando oltre, la posizione meramente razionalistica o fdeistica circa il silenzio di Dio e ponendo l’accento sull’aggettivo «quale», dà vita ad una costellazione di ulteriori domande, spazzando via le facili certezze. «Ad Auschwitz – ha osservato il biblista – è come se si fossero ricapitolate tutte le contraddizioni e le aporie su Dio e l’esistenza del male che la teodicea ha tentato di risolvere nella sua millenaria storia. Il frantumarsi, nel fumo dei lager, di queste soluzioni, non costringe a leggere nella Bibbia l’arche- tipo della domanda?».
De Benedetti invita a lasciarsi provocare dalle pagine di Ricoeur, di Dostoevskij, di Wiesel per cercare di ripensare il rapporto tra Dio e il male.

Egli ci esorta a fermare l’attenzione sulla soferenza inutile di tre innocenti: Belka, il cane dagli occhi cisposi e dalla coda spelacchiata di cui si narra nelle Memorie di una casa di morti e, a proposito del quale, si legge: «oltraggiato dal suo destino, aveva evidentemente deciso di ras- segnarsi. Non abbaiava, né ringhiava mai contro nessuno, come se non osasse. Si aggirava per lo più dietro le baracche, dove c’erano più probabilità di trovare cibo; e se scorgeva qualcuno dei nostri, già da alcuni passi di distanza, si rovesciava subito sulla schiena, in segno di sotto- missione, come a dire: “Fa’ di me ciò che vuoi, come vedi non ho intenzione di oppormi”. Ogni detenuto davanti al quale si rovesciava a quel modo, gli allungava puntualmente una pedata. […] Lo accarezzavo spesso perché mi faceva pena. Quanto a lui, ogni volta che mi vedeva non poteva fare a meno di guaire Mi scorgeva da lontano e prorompeva in guaiti dolorosi, lacrimevoli. Finì dilaniato da altri cani sul terrapieno esterno alla prigione». Gli altri due exempla di innocenti cui fa riferimento De Benedetti sono entrambi – e certo questo non è casuale – dei bambini: l’uno ha nome Iljùsa, il fglio del povero capitano Snjeghirjov; l’altro è chiamato, «il pipel», che in jiddish vuol dire ragazzino. Del primo si narra, in una pagina memorabile de I Fratelli Karamazov, la straziante agonia e il dolore di un padre che, a diferenza di quanto fece Giobbe, si rifuta di accettare un figlio nuovo in compenso di quello che stava per perdere; mentre di «pipel», racconta Elie Wiesel in un passaggio drammatico de La notte. Al ritorno dal lavoro, i prigionieri vedono tre forche alla quali devono essere impiccati tre loro compagni poiché erano state trovate delle armi nel campo. A quel supplizio, a quella terribile condanna erano destinati due adulti e un bambino. Per imparare la lezione, se così si può dire, i prigionieri devono assi- stere all’esecuzione. Gli adulti muoiono subito, mentre il piccolo è così leggero che agonizza per più di mezz’ora. Commenta Wiesel: «Dietro di me udii il solito uomo domandare: Dov’è dunque Dio? E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca». Secondo De Benedetti le domande del solito uomo mettono in crisi il solito Dio, il Dio della teodicea «i cui attributi e le cui vie imperscrutabili sono difese dal diavolo nel Processo di Shamgorod dello stesso Wiesel».

Cosa fare, allora, dinnanzi alla tentazione dell’uomo di rinnegare il suo Dio, cosa dire davanti ad un male così devastante, ad una soferenza come quella di Rachele che «piange i suoi fgli, rifuta d’essere consolata perchè non sono più» (Ger 31, 15)? De Benedetti ofre due risposte: l’una è la rivisitazione di Giobbe come esemplifcazione del riv con Dio, della lite con l’Altissi- mo: quella stessa contesa che anima la discussione di Abramo in favore di Sodoma con l’Eterno: «Davvero sterminerai il giusto con l’empio?..Lungi da te il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio; lungi da te! Forse il giudice di tutta la terra non pratiche- rà la giustizia?» (Gen 18, 23-24). L’altra risposta, di fronte all’eccedenza della soferenza inutile, per richiamare un saggio cruciale di Levinas, è lo zimzum, che signifca contrazione e che impli- ca il «ritrarsi di Dio nel suo proprio essere», al punto che alcune sue costanti: l’assenza, la non onnipotenza, l’esilio, il dolore di Dio sono state richiamate da numerosi esponenti della teologia post-Auschwitz, in primis da Hans Jonas con il suo saggio Il concetto di Dio dopo Auschwitz. «Ed è naturale – spiega lo studioso – che vi sia una ravvisata analogia con la dottrina cristiana della kénosis (Fil 2, 7-8): si pensi fra gli altri ad autori come Kitamori, Fretheim, Turoldo, alcuni dei quali vanno oltre la nozione di kénosis (neotestamentaria e cristologica) per coinvolgere l’intero Dio, se così si può dire, nella sofferenza».

Ma lo zimzum inteso come «passione di Dio» è anche l’unica maniera attraverso la quale può essere compreso l’hester panim. Un nascondimento che non può certo essere spiegato nei ter- mini della ricerca di una risoluzione dialettica, bensì seguendo l’andamento dei doppi pensieri. Un andamento che ci fa scoprire in Dio stesso «un contrasto tra bene e male», ossia ciò che De Benedettti chiama «un’infelicità divina, già espressa dalla preghiera di Dio a se stesso e dal pian- to del Signore, di cui parla il Talmud (Berakhot 3 a): “un’eco simile al tubare di una colomba”». Di qui lo spalancarsi della paradossale prospettiva di una fragilità della stessa Trascendenza, arrivando, addirittura, al rovesciamento della prova ontologica. «Dio non può non esistere non perché è ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore, ma perché il suo debito messianico è tale che deve esistere». Se nel giardino dell’Eden era Dio a chiedere ad Adamo: «Dove sei?», oggi è l’uomo a porre il medesimo interrogativo al suo Creatore. Oltre al Dio dell’ira e della misericordia, si profla il Dio fragile, il Dio in debito con tutte le sue creature, animali compresi. Belka ne è solo un esempio. E uno dei tanti. «Forse la vita futura – chiosa Paolo De Benedetti – è soprattutto una necessità di Dio per redimere la propria immagine così ofuscata e dubbiosa nella vita presente». Non a caso, De Benedetti si serve di vere e proprie categorie per avanzare questa sua teologia del debito di Dio. Si tratta, per lo più, di forme cautelative come: «forse», «non so», «se così si può dire», «chi sa?» che mostrano la costitutività, nella fede, del dubbio scettico.

Sono pagine, davvero, toccanti quelle che lo studioso dedica alla memoria di quel milione e mezzo di bambini, giusti innocenti che sofrono e pagano con la vita l’inconsapevole appar- tenenza ad un comune destino: la stella di David, al punto che dinnanzi ad una tale litania di martiri verrebbe da restituire il biglietto da visita, come fece Ivan ne I Fratelli Karamazov. Paolo De Benedetti descrive ciò che si prova, tenendosi stretti a un corrimano, allorché si vi- sita la Galleria dei Bambini, che si trova a Gerusalemme, a Jad wa-Shem, che è il memoriale dell’Olocausto. Quasi sorpresi dall’oscurità, illuminata soltanto dalla foca luce di piccole stelle, mentre una voce ripete, ad uno ad uno, il nome – che è tutto ciò che resta – di ogni bambino, l’età, la provenienza si ha quasi la sensazione di toccare con mano quell’irreparabilità del male di cui parla Wiesel e insieme la nostra assoluta impotenza. Tuttavia, nel dire quei nomi, nel farne memoria, v’è racchiusa la vittoria contro il nulla: «una piccola vittoria, un seme di ricordo, che ci consente di afermare davanti all’ombra di Hitler: “questo bambino è esistito”». Dire il suo nome diventa un atto religioso.

L’unica certezza che resta è l’ottavo sacramento, che è Jad wa-Shem nel duplice senso che ci fa sperimentare la Shoà e la Corte di Dio». In quel luogo silenzioso abita il dolore del Santo dei Santi, inframmezzato, soltanto, da un’antica poesia liturgica di El’azar Qalir: «Me e Lui [cioè Dio] salva, deh». Ma perché questo ottavo sacramento possa accadere è necessaria la memo- ria di Dio, ove il genitivo è insieme soggettivo e oggettivo: è la memoria di Dio nei confronti dell’uomo e dell’uomo nei confronti di Dio poiché «il nostro rapporto con Dio è bilaterale e anche il racconto è bilaterale ossia Dio, in un certo senso, ha bisogno del nostro racconto per entrare in contatto con noi, e noi abbiamo bisogno del suo racconto per entrare in contatto con Lui». Pena la soferenza stessa di Dio e la cancellazione del nome del peccatore. Narrare il nome diventa un imperativo se non si vuole che, non soltanto il nostro scompaia, ma possa, se così si può dire, interrompersi nella sua durata il ricordo di quel milione e mezzo di bambini di cui non resta altro che il loro nome.

A noi il compito di preservarne ciascuno dall’oblio, dalla minaccia del nulla perché non possano morire due volte. Fare memoria degli uccisi – tutti: dai più piccoli agli anziani – cercando di intendere la storia in termini di toledot (generazioni) è, forse, l’in-vista-di-cui finale del 614° precetto di E. Fackenheim: «sopravvivere per non dare una vittoria postuma a Hitler».

Francesca Nodari
Direttore scientifco


Giovedì 17 gennaio 2013
David Meghnagi
Scrittura e testimonianza. L’opera di Primo Levi
Rocca S. Giorgio - Piazza G. Garibaldi - Orzinuovi (Bs)
«È solo una supposizione, anzi, l’ombra di un sospetto: che ognuno sia il Caino di suo fratello, che ognuno di noi (ma questa volta dico “noi” in un senso molto ampio, anzi universale) abbia soppiantato il suo prossimo, e viva in vece sua. È una supposizione, ma rode; si è annidata profonda, come un tarlo; non si vede dal di fuori, ma rode e stride». - P. Levi, I sommersi e i salvati

Martedì 22 gennaio 2013
Ugo Volli
Mai più? Antisemitismo al di là dell’antisemitismo
Sala Consiliare del Municipio
Piazza Risorgimento, 1 Castrezzato (Bs)
«La testimonianza non è stata ascoltata. Il mondo è sempre lo stesso»
E. Wiesel, Art and Culture after the Holocaust

Giovedì 31 gennaio 2013
Simona Forti
La questione del male tra trasgressione e obbedienza
(evento in collaborazione
con la Casa della Memoria)
Auditorium San Barnaba
C.so Magenta, 44/A - Brescia
«Sarebbe già una grande conquista se potessimo cancellare dal vocabolario del nostro pensiero morale e politico l’orribile parola ‘obbedienza’».
H. Arendt, La responsabilità personale sotto la dittatura

Martedì 5 febbraio 2013
Massimo Giuliani
Testimonianze dall’abisso.
Perché sperare dopo Auschwitz?
Teatro comunale
Via Verdi, 55 - Erbusco (Bs)
«Per quel che concerne le vittime di Auschwitz, la presenza di Dio per loro è un mistero dai molteplici aspetti […] Per gli assassini di Auschwitz, al contrario, non vi sono misteri: hanno negato, vilipeso, assassinato il Dio d’Israele sei milioni di volte e, con Lui, quattromila anni di fede ebraica».
E. Fackenheim, La presenza di Dio nella storia.
Affermazioni ebraiche e riflessioni filosofiche

Giovedì 7 febbraio 2013
Paolo De Benedetti
Il futuro di Dio
Auditorium S. Fedele
Piazza Zamara - Palazzolo (Bs)
«La storia della Shoà è la storia della “legatura di Isacco” ripetuta sei milioni di volte. Sei milioni di martiri sono morti senza lamentarsi, senza fare domande, ma con amore e con fede, recitando lo shemà Israel».
B. Maza, With Fury Poured Out (Con ira traboccante)

Mercoledì 13 febbraio 2013
Bernhard Casper
La scoperta della sorgente dell’umanità
nell’inferno dello Stalag 1492
(evento in collaborazione con la
Confraternita Santi Faustino e Giovita)
Teatro comunale
Via V. Emanuele II - Travagliato (Bs)
«Essere in ostaggio per l’Altro.
Forse soltanto un nome più forte per dire l’amore».
E. Levinas-B.Casper, In Ostaggio per l’Altro

Martedì 19 febbraio 2013
Gabriele Nissim
La memoria del bene e l’educazione
alla responsabilità personale
Municipio, Sala del Pianoforte
Via Lamarmora, 7 - Rovato (Bs)
«Se tutto questo dolore non allarga i nostri orizzonti e non ci rende più umani, liberandoci dalle piccolezze e dalle cose superflue di questa vita, è stato inutile».
Etty Hillesum, Diario 1941-1943

Giovedì 21 febbraio 2013
David Bidussa
Educare alla memoria.
I viaggi di memoria tra oggetto e progetto
Teatro Comunale,
Via Dante 7- Leno (Bs)
«Perché era necessario che l’uomo aggiungesse il peso dello scandalo all’assurdo? È un dato di fatto: l’uomo è vittima dell’assurdo, ma autore dello scandalo».
V. Jankélévitch, Il male

Ultima modifica il Sabato, 28 Maggio 2016 08:16

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