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Mercoledì, 22 Giugno 2011 15:53

Sopravvivere nell’anti-mondo dell’Olocausto

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«Olocausto» di Emil Fackenheim (Morcelliana, 55 pp., 8 €) è un testo che, certamente, segnerà la sterminata letteratura sulla filosofia della storia della Shoah. A renderlo particolarmente significativo è la sua lucida penetrazione che si avvale dell’esperienza diretta di quelle anticamere della morte (Fackenheim fu internato a Sachsenhausen il 10 novembre del 1938) e insieme dell’occhio scrutatore del teologo e del filosofo.

Cambia il punto di vista, la pre-comprensione filosofica: non si tratta tanto o solo di spiegare la definizione del male, se è vero che, come ricorda Levinas, «la sproporzione tra la sofferenza e ogni teodicea appare ad Auschwitz con una chiarezza che cava gli occhi», ma di dare corso a quel 614° precetto: sopravvivere per non dare una vittoria postuma ad Hitler. Sopravvivere come? In che termini? L’espressione chiave, come più volte fa notare il curatore Massimo Giuliani, è il «tiqqun ’olam»: la riparazione del mondo. Ci sembra importante evidenziare come, nel corso dell’intero saggio, l’autore ricorra più volte ad un concetto centrale nella fatticità storica del soggetto incarnato: «evento». La Shoah è un evento «senza precedenti» non solo perché si è trattato della messa in opera di una macchina che aveva di mira la soluzione finale – l’esistenza di ogni ebreo era considerata un crimine da punire –, ma anche perché da quell’istante ciò che era umanamente impensabile, è divenuto storicamente possibile.

Da qui la stessa messa in crisi della filosofia idealista e totalitaria che non cala l’io di carne e di sangue nella storia in cui egli è chiamato a decidersi ad «iniziare qualcosa con se stesso» e a farsi carico di una «difficile libertà», che vira in responsabilità. In quei dodici anni di furia nazista non era più dato di morire da individuo, ma come «ridotto ad esemplare, a tipo della specie», mentre il nuovo modo di vivere era quello del «muselmann», «che nello slang dei campi di sterminio indicava il prigioniero prossimo alla morte, il quasi-cadavere».

Dinnanzi a una tale follia identitaria che inneggia alla razza superiore, può forse bastare la risposta del giudaismo dell’esilio, il morire per Santificare il Nome? Aveva forse il «muselmann» la possibilità di scegliere? Poteva, forse, quel milione e mezzo di bambini, il cui nome viene scandito ininterrottamente a Yad wa Schem, possedere la capacità di discernere? Qui il male radicale o demoniaco che Hanna Arendt non esitò a definire banale si tocca con mano. Trasuda disumanità, è la cifra di quell’anti-mondo che fu la Shoah.

Contemporaneamente, in questo punto, tocca la sua acme l’intuizione di Fackenheim: la resistenza al male come risposta al male diventa una chance sia per il giudaismo che per la teologia cristiana. Il male resta la penultima parola, la responsabilità fino a farsi «con il proprio corpo ostaggio per l’altro» – come non ricordare i giovani della Rosa Bianca? –la sola via verso il bene. Ma In ciò non v’è alcuna fuga mistica, alcuna volontà di immolarsi per una ricompensa futura perché se i vuole «sperare per il presente», se l’«in vista di cui finale» è la salvezza – e non heideggerianamente l’essere – occorre ripetere con il rabbino Nissenbaum che non è più il tempo del martirio, ma quello della santificazione della vita.

Giornale di Brescia, 19 giugno 2011

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