Miguel Benasayag
Funzionare o esistere?
A Miguel Benasayag va la XIII edizione del Premio Internazionale di Filosofia /Filosofi lungo l’Oglio. Un libro per il presente per la sua opera Funzionare o esistere?, Vita e Pensiero 2019.
Socrate e Fedro camminano lentamente fuori dalle mura di Atene per trovare un posto in cui sedersi e continuare a parlare: è estate, è quasi mezzogiorno. Bisogna cercare un po’ d’ombra e di fresco per poter meditare filosoficamente. Seguendo l’Ilisso, un fiumicello, I due giungono di fronte a un grande albero. E’ li che Socrate esclama:
SOCRATE: [230b]«Per Era, è un bel luogo per sostare! Questo platano è molto frondoso e imponente, l'alto agnocasto è bellissimo con la sua ombra, ed essendo nel pieno della fioritura rende il luogo assai profumato. Sotto il platano poi scorre una graziosissima fonte di acqua molto fresca, come si può sentire col piede. Dalle figurine di terracotta di fanciulle e dalle statue sembra essere un luogo sacro ad alcune Ninfe e ad Acheloo, dio dei fiumi. E com'è amabile e molto dolce il venticello del luogo! Una melodiosa eco estiva risponde al coro delle cicale. Ma la cosa più leggiadra di tutte è l'erba, poiché, disposta in dolce declivio, sembra fatta apposta per distendersi e appoggiarvi perfettamente la testa».
In quel luogo incantevole, cullati dal frinire delle cicale, Fedro e Socrate iniziano una meditazione filosofica intorno alla bellezza e all’amore e a un certo punto Socrate introduce un passaggio meraviglioso, la celebre poesia dell’anima alata. Colui che vede l’oggetto del suo amore … ,
«[251a] lo afferra come una mutazione provocata dai brividi, un sudore e un calore insolito; e ricevuto attraverso gli occhi il flusso della bellezza, prende calore là dove la natura dell'ala si abbevera. Una volta che si è riscaldato si liquefano le parti attorno al punto donde l'ala germoglia, che essendo da tempo tappate a causa della secchezza le impedivano di fiorire.
Così, grazie all'afflusso del nutrimento, lo stelo dell'ala si gonfia e prende a crescere dalla radice per tutta la forma dell'anima; un tempo infatti l’anima era tutta alata. A questo punto essa ribolle tutta quanta e sussulta, e la stessa sensazione che prova il bimbo che mette i denti nel momento in cui essi spuntano, ossia prurito e irritazione alle gengive, la prova anche l'anima di chi comincia a mettere le ali: quando le ali spuntano ribolle e prova un senso di irritazione e solletico. Dunque, quando l'anima, ... riceve delle parti che da essa provengono e fluiscono (e che appunto per questo sono chiamate desiderio) e ne viene irrigata e scaldata, si riprende dal dolore e si allieta.
Quando invece ne è separata e inaridisce, le bocche dei condotti donde spunta fuori l'ala si disseccano e si serrano, impedendone il germoglio; ma esso, rimasto chiuso dentro assieme al flusso d'amore, pulsando come le arterie pizzica nei condotti, ciascun germoglio nel proprio, tanto che l'anima, pungolata tutt'intorno, è presa da assillo e dolore, ma tornandole il ricordo della bellezza, si allieta».[252d].
Lasciando quel luogo incantevole all’ombra del platano e dell’agnocasto, per tornare nella realtà, di questo libro che oggi premiamo il suo autore, Miguel Benasayag, dice che è per tutte le donne e tutti gli uomini che sentono lo spuntare delle ali. Il riferimento è proprio al Fedro di Platone, al passo che ho voluto leggere per intero nella sua struggente bellezza. E’ un libro per tutti gli uomini e tutte le donne che riescono a sentire lo spuntare delle ali, quel solletico, quel piccolo fastidio - simile a quello che provano i bambini quando spuntano loro i primi denti, i denti da latte -, che poi dà luogo allo spuntare e al dispiegarsi delle ali. Cioè questo libro è per voi, per tutti noi che siamo qui in una serata estiva, non proprio sotto un platano e un agnocasto ma in un luogo altamente suggestivo, a sentire parlare di filosofia non lungo l’Ilisso ma lungo l’Oglio.
E’ un libro per tutte le persone che si sono accorte, insieme allo spuntare delle loro ali, della presenza soverchiante della mentalità economicista e utilitarista, che è uno dei modi nei quali il funzionare prevale sull’esistere, come spiega Miguel Benasayag. E’ la mentalità che insiste sul saper fare invece che sul sapere, sulla competenza, che chiede di modellarsi secondo la performance richiesta e il successo ambito, invece che sulla conoscenza, che richiede intelligenza; sulla soluzione dei problemi pratici invece che sulla loro comprensione a livello teorico, sui rapporti umani come vendita e acquisto di prodotti. E che ha trasformato l’agire secondo virtù in agire secondo utilità.
Lo vediamo oggi nel mondo della scuola e dell’università, dove il ruolo di queste istituzioni è stato appiattito nel corso degli anni sugli aspetti economici, facendole diventare erogatrici di servizi, e equiparando gli studenti a clienti. L’università che si trasforma in una specie di azienda, in un'impresa commerciale una delle cui funzioni è vendere prodotti, come sono ora chiamate le opere dell'ingegno, E' l'idea del mondo-come-mercato, a partire dall'esperienza dei viaggiatori di ferrovia o dei pazienti di strutture mediche trasformati indifferenziatamente in «clienti», o da quella degli studenti, universitari e no, alle prese con debiti e crediti che suggeriscono l'equivalenza tra sapere e denaro E' come se la relazione docente/studente fosse divenuta una relazione tra venditore e acquirente, e la conoscenza fosse lì per essere venduta.
Nel mondo economicista-utilitarista il principio del profitto, dell’utilità e dell’interesse della ragione economica si è esteso fino ad assumere lo statuto di paradigma per comprendere la politica e tutte le forme di comportamento e di azione umana.
Ma l’università, o la scuola, non è un’azienda: è (o dovrebbe essere) un’istituzione che opera a vantaggio delle persone, dei cittadini, del sapere, della conoscenza, della virtù, della democrazia.. La concezione utilitaristica che pone come obiettivo dei corsi di laurea la formazione di specifiche figure professionali non rende un buon servizio al sistema economico, perché il mondo del lavoro si evolve in fretta; gli stessi datori di lavoro non sono in grado di dire quali competenze occorreranno loro di qui a pochi anni. Meglio quindi avere una solida preparazione di base, meglio acquisire competenze trasversali, meglio maturare una capacità di apprendere spendibile nei decenni futuri in qualunque contesto, che non accumulare un pacchetto preconfezionato di apprendimenti mirati e tarati sull’oggi. Un focus eccessivo sulla formazione lavorativa produce lavoratori meno flessibili, meno creativi: quindi, in ultima analisi, anche meno produttivi.
Discorso analogo si può fare per la ricerca. Un’enfasi eccessiva sulla quantità dei «prodotti» espone al rischio di trasformare lo strumento di misurazione di un’attività nell’obiettivo principale di quella attività. Il motto «pubblica o muori» (publish or perish) ha come immediato corrispettivo il cosiddetto salami slicing: il contenuto di un articolo importante può essere affettato in tre articoli brevi, che rendono (valgono) più di uno. E a quale scopo impegnarsi in progetti di lungo respiro, che richiedono anni e anni di lavoro prima che ne emergano risultati decentemente pubblicabili? A molti sfugge poi che una visione troppo utilitaristica e produttivistica non penalizza solo il sapere umanistico e gli studi storico-sociali, ma anche la ricerca di base nelle scienze cosiddette «dure».
La visione economicista-utilitarista sostiene e ci fa credere che ogni sapere deve essere utile, ogni insegnamento deve servire a qualcosa, e ogni sapere non immediatamente utile viene epurato, come lo studio delle lingue antiche, il greco, il latino. Ma la ricerca è fatta anche di spreco, intuizioni casuali, punti morti, false piste e sentieri interrotti, e soprattutto della curiosità con cui ci si mette in viaggio senza intravvedere chiaramente la meta finale. E questo che fa parte dell’esistere, che è lì con il tempo, con il presente, con i suoi punti forti e le sue debolezze, con la vecchiaia, la povertà, il dolore, la malattia, la morte.
La visione utilitarista invece che fa? soffoca quelle alucce che vorrebbero spuntare, come i teneri cornini coperti di peluria sulla testa del cerbiatto.
L’etica utilitarista-consequenzialista infatti giudica l’eticità di un certo gesto in base alle conseguenze, ovvero all’utilità del maggior numero di persone. E’ l’etica adottata senza troppo pensarci da chi ritiene che l’intelligenza consiste nel risolvere problemi e la conoscenza nel saper fare della competenza. Come se si trattasse soltanto di risolvere problemi e come se tutti i problemi potessero essere espressi in termini numerici, fossero passibili di una descrizione computazionale e potessero essere riportati nell’ambito matematico.
Anche il recente sistema della cosiddetta Intelligenza Artificiale, ChatGPT, fornisce risultati davvero straordinari dal punto di vista della produzione testuale: saggi, poesie, soluzioni a domande d’esame, traduzioni, rapporti tecnici nonché, con DELL-E, immagini, opere d’arte. Sono originali? Sì nel senso che i testi sono sequenze di parole mai prodotte in quell’ordine. No, nel senso che il computer segue comunque e sempre le istruzioni con cui è stato programmato: non c’è autonomia da nessuna parte. Dobbiamo dunque in qualche modo, con l’intelligenza umana, programmare alla macchina un comportamento etico ma quale etica? Quel che si fa, ancora una volta, è applicare l’etica utilitaristica perché è la più facile da tradurre in termini computazionali.
E’ l’etica di chi cerca di insegnare alle macchine la difficile arte del valutare, per es. in caso di difficoltà della guida automatica, se tirar sotto cinque anziani per salvare due bambini, o cinque bambini per salvare due anziani. E’ l’etica di chi ritiene le stragi di civili perdite collaterali necessarie per risolvere il problema del terrorismo, applicando alla fine un altro genere di terrorismo. Se vogliamo buttare nel traffico vetture senza conducente dobbiamo prima programmarle, con l’IN, a compiere questa o quella scelta (di questi e di simili problemi si occupa la carrellologia, ma non possiamo parlarne qui).
Vorrei fare a questo punto un esempio strettamente contemporaneo. Tra le asserzioni più inquietanti del presidente degli USA Donald Trump (anche se bisogna dire che tra tutte c’è soltanto l’imbarazzo della scelta) ci sono quelle riguardanti la conquista della Groenlandia. «In un modo o nell’altro» ha proclamato Trump, «la avremo...è troppo importante per la sicurezza nostra e internazionale». Inutile dire che faccio il tifo per la grande e freddissima Groenlandia e anche per la piccola e un po’ meno fredda Danimarca, come a scuola si faceva il tifo per Ettore e non per Achille. Ora è vero che nell’atteggiamento del governo statunitense sembrano prevalere considerazioni di pura potenza nazionale, e probabilmente è anche vero che Trump non ha idea di che cosa sia l’etica e tanto meno la filosofia. Eppure viene avanzata la ragione per cui «ne abbiamo bisogno...è importante», che suona proprio come una giustificazione.
Simili argomenti vennero addotti anche da Hitler nei confronti del corridoio di Danzica e da Putin per quanto riguarda la Crimea: «ci serve, ci è utile» e quindi ce le prendiamo, e il mondo glielo lascia fare; nel 1939 non c’eravamo, ma nel 2014 sì, e siamo stati zitti.
L’etica consequenzialista giudica proprio l’eticità di un certo gesto in base alle conseguenze, ovvero all’utilità del maggior numero di persone, in questo caso pervertita dal pensiero che le persone di cui si cerca l’utilità debbano essere «i nostri». Ora, voi e io abbiamo di sicuro bisogno di qualche cosa che riteniamo utile, ma non per questo ce l’andiamo a prendere gridando che ci serve! Oggi però questo tipo di etica dilaga anche in altri aspetti della vita contemporanea, come dicevo prima. Sembra semplice l’etica consequenzialista ispirata all’utilitarismo, ed è anche molto usata, in politica come in guerra come pure in questioni di vita quotidiana, ma può condurre a soluzioni ripugnanti.
Mi sono dilungata su questo punto riguardante la sopraffazione dell’esistere da parte del funzionare perché è il più macroscopico ma Benasayag ce ne indica altri:
- la posizione degli anziani, dei vecchi, costretti al giovanilismo, a performances assurde senza poter essere, se lo sono, fragili ma sapienti;
- l’atteggiamento verso i disabili, celebrati quando dimostrano forza, potere, successo, che se non sono forti, potenti, performanti, celebri, possono prendersela, come i poveri o i deboli, o i disoccupati, soltanto con se stessi;
- la abolizione di limiti e divieti, senza capire che i legami non sono limiti ma ciò che conferisce potenza alla libertà di stabilire relazioni con altri; senza capire che i limiti sono anche, e spesso, molto positivi; ogni cosa deve essere invece, oltre che illuminata a giorno, illimitata come i contratti delle compagnie telefoniche;
- la valutazione della guerra, infine, guardiamoci intorno, in termini di investimenti e profitti, costi e benefici, unici ceriteri per considerare se prendere le armi per aggredire un paese, affamare gli abitanti, distruggerne le abitazioni e la vita.
Come se si trattasse dunque soltanto del funzionamento, del successo della performance; invece, cito dal libro premiato, «il funzionamento è, al massimo, un modo di comprendere e rappresentare dall’esterno i processi della macchina e del vivente, del biologico e dell’inerte, mentre l’esistenza rimanda alla comprensione nell/dell’interiorità dei processi e del vivente e delle situazioni in cui si svolgono».
Il libro è dunque un appello, e concludo, a non soffocare i nostri disfunzionamenti, accettare le nostre incrinature e le nostre futilità, perché da essi dipende la nostra esistenza e l’esistenza in generale. E’ un appello a rispondere al richiamo del desiderio perché è soltanto così che si sentirà quel solletico, quel ribollire, anche quel fastidio che ci fa capire che ci stanno spuntando le ali con le quali si può vivere, si può, appunto, esistere.

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- 2014 - Paolo De benedetti - Ciò che tarda avverrà
- 2013 - Christos Yannaràs - Ontologia della relazione
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